Ritornare a pensare…

E’ possibile ritornare a pensare?
 
Questa mattina, durante una breve chat in Whatsup con un amico docente in Gregoriana, ci siamo chiesti: ma le persone con responsabilità – politici, uomini di impresa, ecc – immersi dai loro mille impegni, hanno tempo per riflettere e approfondire i temi che affrontano? Ci chiedevamo: ma quando studieranno e approfondiscono? Tra una chat e una telefonata? Un colloquio e una riunione?
 
Ce lo siamo chiesto perché entrambi sappiamo quanto sia duro studiare e scrivere, riflettere e rielaborare contenuti. Molte delle nostre giornate le trascorriamo così e sappiamo che anche l’esperienza della solitudine culturale può produrre forme di vita.
 
L’uso dei media e soprattutto dei social può però essere una lama a doppio taglio. Noi li usiamo e sappiamo che sono una estensione reale della vita relazionale.
E questo funziona.
Ma quando tolgo tempo, soprattutto a persone che hanno responsabilità e si diventa schiavi attraverso un uso compulsivo oppure sono solo lo specchio di forme narcisistiche per fare vedere la propria faccia senza costruire idee, portare contenuti e creare bene comune (sono parecchi i politici ma ahimè anche tanti uomini e donne di Chiesa)… allora questa dinamica chiede una riflessione seria.
 
Ancora più pericoloso è quando si alza la voce, non si ascolta la posizione dell’altro e si creano notizie false che poi diventano virali! Inutile parlare a slogan e a cliché.
 
C’è un’unica strada. Ma bisogna sceglierla.
 
La parola ha bisogno di silenzio. Va sedimentata. Poi ha bisogno di approfondimento. E poi, ancora, di confronto per capire se è ragionevole e può essere fruttuosa. Di parole gridate la cultura non ha bisogno, perché mettono in pericolo la pace e la democrazia. Sono come una goccia pericolosa che nel silenzio può spaccare le rocce.
 
È per questo che in casi così bisogna ritornare ad essere “persone contemplative” capaci di distinguere il silenzio che genera la parola vera dai rumori: “Esiste un silenzio che è un elemento primordiale sul quale la parola scivola e si muove, come il cigno sull’acqua. Per ascoltare con profitto una parola, conviene creare dapprima in noi stessi questo lago immobile…. La parola sorge dal silenzio, e al silenzio ritorna”. (Jean Guitton, La Solitude et le silence).
 
Ma è questa parola che genera politiche nuove, rende l’uomo politico credibile, autentico e libero.

Non spazi ma tempi, ecco la risposta

Quello che temo, scrive Paolo Benanti rispondendo alla mia riflessione, è che non sia solo una questioni di spazi ma una questione di tempi…

“In un mondo come il nostro dove la tecnica ci insegna una relazione alle cose e all’altro fatta di azione e reazione simultanea forse il vero problema è il tempo.
Siamo abituati a spingere un bottone e immediatamente ottenere un risultato: abbiamo artefatti tecnici che ci danno bevande calde e fredde “istantanee”, cibi “pronti”, risposte “immediate” (cioè senza alcuna mediazione da parte della sapienza umana) alle domande che facciamo ai nostri schermi e possibilità di connetterci “simultaneamente” a persone che sono ovunque. Questa modalità del causa-effetto ci ha sottratto il concetto di gratuità, di effetto non giustificato, di dono e, in ultima analisi, di stupore come disposizione alla vita.

Quello che sembriamo aver perso, quello che ci sottrae gli spazi per pensare, è in definitiva un’eclissi della domanda di senso… Presi dal voler determinare degli effetti abbiamo pensato che potevamo non chiederci più nulla sugli scopi, sul fine, sul significato del nostro agire. Il mondo della tecnica misura, fa bilanci, calcola e prevede… Un martello serve a piantare un chiodo, una macchina a spostarsi da un posto a un altro, un computer a progettare un ponte… un fiore non “serve a niente” e tuttavia è pieno di senso… è capace di dire lo stupore del percepire l’altro come un dono per la propria esistenza.

Se eclissiamo il senso eclissiamo il valore del mondo. Cosa vuol dire che, nel nostro Occidente tecnologico, Apple vale più della Grecia? Che mondo abbiamo costruito se il valore di un azienda simbolo dello sviluppo occidentale (321,8 mld di euro) è superiore a quello del paese dove l’Occidente è nato?
Temo che la risposta sia una sola… abbiamo costruito un mondo già condannato perché abbiamo abolito un principio che regola la distinzione della realtà e che ha fatto perdere al nostro Occidente proprio il significato di “valore” che è il legame tra la “realtà” delle cose e la “realtà” dello spirito. Abbiamo scordato che prima di un concetto economico o fisico il valore è un essenza spirituale legata all’essere e non al fare, perché è una qualità del reale più che un’azione, sia essa reale o finanziaria. Possiamo dire che il valore è un dono, anzi uno stato di grazia. Il valore è quella scintilla, fragile ma capace di illuminare le nostre tenebre, che appare “all’incrocio del nostro desiderio infinito di essere con le condizioni finite della sua realizzazione” (Paul Ricoeur).

Il senso non si spiega, il senso non si causa, il senso non si compra. Il senso e la ricerca di senso hanno bisogno di tempo, un tempo in cui la persona fa vuoto in sé e intorno a sé perché il senso dell’essere sia. Solo chi sa spogliarsi del tanto che colma le nostre esistenze può fare quello spazio che è condizione minima e necessaria per l’accadimento di senso, perché la vita, nostra e altrui, perché il mondo sveli i suo senso: oggi, purtroppo, “il mondo è pieno di significati abbandonati” (Don De Lillo, Rumore bianco).

Caro Francesco, dobbiamo ripartire da qui se vogliamo salvare l’Occidente…”.

In https://www.facebook.com/paolo.benanti/posts/10210943531085456?hc_location=ufi

sassi

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1 comment

  1. 1

    Una parola in grado di generare il nuovo perchè non nasce da un contesto superficiale ma affonda le sue radici nella parte più intima, più vera della persona dove ciascuno si incontra con la sua unicità di creatura.

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