Alcune pagine di Silvano Fausti

Il Giubileo: ripartire da zero o, meglio, dal principio (Dal volume l’Idiozia).

SilvanoXSito copia

Celebrare il Giubileo è l’opportunità per vivere “oggi” la grande Idiozia. Il vangelo di Luca racconta come Gesù ha realizzato “l’anno di grazia del Signore”, l’anno giubilare. Come abbiamo visto, il Signore crocifisso ci ha portato la salvezza annunciata dagli angeli a Betlem (“oggi è nato per voi il Salvatore”, Lc 2,11), risuonata a Nazareth all’inizio della sua missione (“oggi si compie questa parola”, Lc 4,21), echeggiata dalle folle che vedono il suo potere di riconciliazione (“oggi abbiamo visto cose incredibili”, Lc 5,26), compiuta nel suo viaggio a Gerusalemme (“è necessario che oggi e domani io vada per il mio cammino”, Lc 13,32s), accolta da Zaccheo in casa sua (“oggi è necessario che io dimori a casa tua”, “oggi la salvezza è entrata in questa casa”, Lc 19,5. 9), capita da Pietro nel suo rinnegamento (“oggi mi rinnegherai”, Lc 22,34. 68) e donata definitivamente al malfattore crocifisso (“oggi sarai con me in paradiso”, Lc 23,43). A questi sei oggi segue il settimo, che è il nostro tempo: in esso gustiamo qui e ora le primizie dell’oggi eterno di Dio, donatoci in Gesù.

Gli Atti degli apostoli raccontano l’interpretazione idiota che gli stessi apostoli danno dell’Idiozia. La theoria diventa loro prassi: fanno e dicono quanto Gesù ha detto e fatto prima di loro (cf At 1,1). Ogni racconto degli Atti è un commento a una pagina del vangelo: ci mostra come vivere nella storia la nostra verità di figli e fratelli.

Espressamente, nel discorso inaugurale a Nazareth, Gesù dice che è venuto a liberare il mondo da ogni forma di alienazione e schiavitù (Lc 4,16-21): inaugura per noi l’“anno di grazia del Signore”. Quello che lui ha compiuto allora, si compie “oggi” in chi lo ascolta (cf Lc 4. 21). La sua vita e la sua morte ci apre il cammino per raggiungere la nostra identità di figli, misericordiosi come il Padre (Lc 6,36). Da homo homini lupus siamo trasformati homo homini Deus!

Ci sono infatti due modi opposti di vivere le nostre relazioni. Il primo è diabolico: ci divide da noi stessi, dagli altri e dall’Altro. Il secondo è divino: ci fa accettare noi stessi come figli amati, gli altri come nostri simili, e il Padre come fonte di libertà e di vita. L’uno è un tentativo di mettere le mani sulla vita propria e altrui; l’altro una ricerca di affidarsi  nelle mani altrui. Di fiducia si vive, di diffidenza si muore! La diffidenza crea un sistema di paura, violenza, concorrenza e distruttività; la fiducia un mondo di desiderio, dono, solidarietà e crescita. Da spietato, destinato al nulla, il mondo diventa divino.

La tradizione del Giubileo cristiano nacque nel 1330 sotto la spinta di quei “romei” che in massa accorrevano a Roma per la fine del secolo in attesa che quello nuovo fosse veramente nuovo! Fu opera del Papa Bonifacio VIII, non molto simpatico né a Dante né a Jacopone da Todi, noto per la sua Bolla Unam Sanctam[1] e per lo schiaffo ricevuto da Sciarra Colonna (anticipo di pena del contrappasso per tale Bolla?). L’uomo è di sua natura viator: è in viaggio, perché la sua casa non è dove sta con il corpo, bensì dove il suo desiderio l’ha già preceduto. Il pellegrinaggio è metafora del vero “cammino dell’uomo”, in cerca di se stesso, del suo dove.

Quando Adamo peccò e si nascose, Dio gli disse: “Dove sei?”, perché non era più al suo posto – e il posto dell’uomo è Dio (Rupert di Deutz), dove lui è figlio nel Figlio. Dopo il peccato siamo in esilio da lui e da noi stessi, nella nostalgia del giardino perduto. L’esule non è di casa in nessun luogo. Per questo cammina, con il rischio di errare, sempre più estraneo a sé e agli altri, straniero e stranito, senza sapere se è fuggiasco o pellegrino, lontano o vicino alla sua casa. “Lontano da chi, lontano da dove?”.

Nel nostro vagabondare incerto, il Giubileo vuol essere una luce che ci orienta, e, di bivio in bivio, dai nostri sentieri smarriti ci riconduce al nostro “dove”.

E’ un “ritorno” al principio, ripercorrendo a ritroso la storia di violenza, per sostare ai piedi del Crocifisso e diventare ciò che siamo.

È un ripartire da zero o, meglio, dall’origine, da dove cominciò la fuga che ci rese immemori, pur restando il cuore e il piede sempre inquieti.

Che fare oggi?

Ripartire da zero! È possibile, dopo duemila anni, rientrare una seconda volta nel grembo della madre e rinascere nuovi, come il primo giorno? Eppure, se si vuole entrare nel regno di Dio, è necessario (cf Gv 3,3ss).

Il Giubileo, se non aiuterà questa rinascita spirituale, si esaurirà in un inutile, anzi futile e dannoso turismo religioso. Per la Bibbia l’Anno Santo avrebbe voluto essere il cuore della legislazione. Ogni cinquant’anni si doveva tornare come all’inizio, quando si era entrati nella terra promessa: ogni debito doveva essere rimesso, ogni servitù abolita, la terra ridistribuita fra tutti – in una parola: si doveva tornare a vivere da fratelli. Questa è la condizione per “abitare la terra” (Lv 25,18). Diversamente le ingiustizie, le divisioni e le lotte la rendono inabitabile, e non resta che la via dell’esilio.

Tutto quello che c’è al mondo, è eredità del Padre da dividere tra i figli. Se non si fa così, i beni, invece di alimentare la vita animale in quanto usati e quella spirituale in quanto condivisi, diventano il feticcio al quale ognuno sacrifica se stesso e l’altro, distruggendo la vita spirituale e rendendo alla fine impossibile anche quella animale.

Nonostante ogni buona volontà, si creano inevitabili differenze, con accumulo di miserie sempre maggiore per i sempre più numerosi poveri e accumulo di ricchezza sempre maggiore per i sempre meno numerosi ricchi. Mantenere e accrescere questa disuguaglianza è non riconoscerci fratelli e disprezzare il Padre. Si diventa schiavi di mammona, e tutto si dissolve nel caos di una concorrenza spietata: il mondo diventa un arsenale di inganni e di armi, una polveriera pronta ad esplodere, e il giardino regredisce a deserto! L’Anno Santo è il correttivo indispensabile per convertirci all’economia della condivisione. Solo così la terra resta o diventa vivibile, e il deserto rifiorisce in giardino!

La missione e la passione dei profeti fu sempre quella di richiamare – inutilmente! – a questa verità. Gesù, secondo l’evangelista Luca, è colui che la realizza “oggi” (cf Lc 4,19; Is 61,1-2): è il Figlio che si fa fratello di tutti, perché tutti siamo figli con lui e fratelli tra di noi.

La prima comunità cristiana, a sua volta, è descritta idealmente come l’Israele che compie l’Anno Santo: nessuno dice sua proprietà quello che gli appartiene, ogni cosa è comune (At 4,32) e ognuno riceve secondo i propri bisogni (At 2,45). I credenti hanno capito che la vita non è garantita dal “possesso”, bensì dalla “condivisione dei beni”. Questi sono venduti e messi a disposizione di tutti, perché la vita non dipende dalla terra, ma dallo spirito con il quale la si abita.

Cosa sarà l’Anno Santo? Un fasto di pie cerimonie, un’autocelebrazione rassicurante per affrontare l’incognita del nuovo millennio, un andare a Roma come alla Mecca? Se sarà così, Dio ci ripete con il profeta Isaia quello che da sempre ha detto: “Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero? Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità” (Is 1,11ss).

Il rapporto tra Nord e Sud o, per rimanere vicino a noi, il Canale d’Otranto non possono essere letti come il naufragio di ciò che l’Anno Santo propone? Al di là di ogni “distinguo”, dobbiamo vedere nei diseredati della terra i nostri fratelli più cari.

Oggi è necessario progettare e programmare una ridistribuzione dei beni fra “tutti” gli uomini. Come può considerarsi figlio di Dio uno che non considera suoi fratelli i terzomondiali, i poveri e gli emarginati – i figli privilegiati di Dio? Cosa proporre e cosa fare, perché sia possibile fare davvero “l’anno gradito a Dio”, e non una burla, atroce per i fratelli e detestabile agli occhi del Padre?

Crediamo davvero che il Signore ci ha salvato con la sua croce, che la sua povertà, umiltà e mitezza sono la sua ricchezza, la sua gloria e il suo potere? Se non ci convertiamo a livello personale e comunitario su questo punto preciso, scomparirà dalla terra l’umanità e alla fine lo stesso uomo: il nostro sarà davvero il secolo dell’“umanità perduta”! [2]

Oggi, più che mai, tutto il mondo è paese. La terra è un’unica patria, con destino unico. C’è libero movimento di capitali, lavoro e prodotti. Il mondo è unificato, sotto lo scettro dei mercati finanziari … e della mafia! C’è un “regime globalitario”, la cui anima segreta è il dio profitto. Non è questa la bestia apocalittica, il cui numero di codice, senza il quale non si accede al mercato, è marchiato sulla fronte e sulla mano di tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi (Ap 13,16-18)?

“Che fare?”, si chiedevano i primi credenti per salvarsi da questa situazione (At 2,37-40). Cosa proporre per la salvezza di questa nostra epoca? Un campo immenso è aperto alla fantasia, all’intelligenza e all’inventiva di tutti, per cercare e trovare, sperimentare e attuare modelli di vita solidale, adeguati alla situazione nuova. Non basta ripetere formule passate o principi che sono anche giusti, ma che non si sanno articolare con la complessità del reale. Ci deve essere un ripensamento che coinvolge tutti i livelli del pensare e dell’agire. Il tramonto delle ideologie rende più facile e necessario tale compito. Senza prospettive l’uomo regredisce e si rintana nell’animalità pura, tanto più distruttiva quanto più ricca di mezzi. “ Senza visioni i popoli muoiono!”

Oggi il mondo è un solo popolo con un solo linguaggio. Come a Babele, qualunque cosa ci si proponga, non è impossibile realizzarla (Gen 1,16). Quale sarà il progetto? Il caos o la Pentecoste, l’orgia del potere o la festa della fraternità, il dominio della Bestia da tutti adorata, o il corpo del Figlio nella sua statura piena? Oggi è possibile una cosa e il suo contrario: distruggere tutto o vivere da fratelli, l’Anticristo o il Cristo totale. O, forse, il secondo viene necessariamente solo dopo il primo?

Qualunque siano le scelte di altri – saranno probabilmente quelle di sempre! – il cristiano è chiamato a “rinascere dall’alto”. Deve, nella forza dello Spirito, fare giustizia agli oppressi, spezzare il dominio dell’idolo, rimettere al suo posto l’uomo, nella sua dignità di figlio di Dio, partendo dall’ultimo. Questo deve avere i diritti e le opportunità che ho io, suo fratello, qualunque sia la sua nazione, razza o condizione.

Bisogna che tutti gli uomini di buona volontà collaborino per affrontare seriamente il complesso problema dei debiti del Terzo Mondo, ridisegnando le regole di un convivere planetario fondato sulla centralità della persona e della comunità. Lo slogan: “Condonare i debiti dei paesi poveri”, è una presa in giro. Cosa significa condonare i debiti a chi non può pagarli? E, inoltre, che generosità è quella di un bigliettaio che non fa pagare il biglietto a un operaio al quale ha appena rubato il portafoglio con il suo mensile? Il segno che si sta lavorando all’altezza della posta in gioco sarà quello di porre al centro della nostra programmazione colui che è escluso. Il povero, il piccolo, il vecchio e l’emarginato sono il Signore che viene a noi per il suo giudizio – che è il nostro stesso nei loro confronti (cf Mt 25,31-46).

Più in particolare è necessario che i paesi ricchi guariscano dal delirio collettivo che fa loro vedere ciò che non esiste e non vedere ciò che esiste. Bisogna operare una profonda transizione culturale, in cui acquisisca preminenza il ragionare collettivo; perseguire una giustizia distributiva delle ricchezze del mondo, cessando l’atteggiamento predatorio nei confronti dei paesi poveri; cercare un modello di sviluppo sostenibile anche per il futuro, che non distrugga le risorse disponibili; favorire condizioni che aiutino ad apprezzare la fruizione dei beni immateriali rispetto a quelli materiali.

Se l’Anno Santo orienterà gli animi in questa direzione, ben venga. E ogni anno sia santo. Sarà la conversione necessaria ad accogliere il Signore, che, come è venuto duemila anni fa, sempre viene e verrà, anche nel terzo millennio.

Se il tutto si ridurrà a semplici liturgie, sarà solo fumo che presto farà lacrimare.

 

Proposte per la comunità cristiana

Proponendo il Giubileo, la comunità cristiana è chiamata a convertirsi. Che il tutto non si esaurisca ad abbellire Roma. Dai tempi dell’incendio di Nerone, l’Urbe non ha mai avuto forse tanti cantieri – pochi più di seicentosessantasei! – e ne uscirà splendida più che mai nei suoi monumenti, soprattutto sacri. Che la buona volontà di rinnovamento non si fermi alla facciata, neanche delle chiese – e sono tante! Di tutto questo non resterà pietra su pietra che non verrà distrutta (Mc 13,2). La contemplazione della croce è una teoria nuova. Che ne esca una prassi innovatrice, per non essere maledetti come il fico sterile, con tante foglie ma senza frutti (Mc 11,12-14).

La predicazione e l’azione della Chiesa puntino a sdemonizzare Dio, dandogli il suo volto di libertà, di mitezza e di perdono; a demistificare l’uomo, restituendogli la sua dignità di immagine di Dio, e, infine, a testimoniare concretamente la bellezza della vita, sostituendo l’accumulo di violenza con una relazione filiale con l’Altro e fraterna con gli altri. La vita cristiana diventi un no alla violenza di ogni tipo – la peggiore è l’istupidimento generale! – contro ogni discriminazione ed emarginazione.

Mi pare utile suggerire i punti che seguono:

non cambiare il vino in acqua

Il Signore ha cambiato l’acqua in vino. Noi cambiamo il vino in acqua: riproponiamo la legge invece del vangelo, o il vangelo come legge. Fin dall’inizio è accaduto così. Basta vedere, per esempio, la lettera ai Galati e Atti 15. Le tentazioni della prima Chiesa sono le prime tentazioni della Chiesa in ogni epoca, soprattutto quando non ci si accorge, ora come allora!

Erroneamente si pensa che il vangelo vada garantito con norme, e si propongono leggi invece o accanto al vangelo. A prima vista sembrano più rassicuranti e pastoralmente più sagge; ma, invece di rafforzarlo, lo vanificano. Non si possono avere due padri: la salvezza o è dall’osservanza della legge o è dalla grazia. Dice Paolo: “Non avete nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione della legge; siete decaduti dalla grazia” (Gal 5,4).

È chiaro che lo stare insieme implica delle regole; ma non sono queste che fanno stare insieme. Il matrimonio è indissolubile non perché la legge vieta di romperlo, ma perché l’amore è fedele in eterno! La madre osserva i “diritti del bambino” non perché consulta il codice, ma il suo cuore! Il problema è un “ritorno” al cuore, all’interiorità, a quello zoccolo duro che costituisce il nostro essere persone che pensano e decidono.

Il vino nuovo non si mette in otri vecchi: ha bisogno di cuori nuovi, di carne e non di pietra – di persone libere che sanno amare e rischiare, non di persone paurose che si chiudono nelle loro sicurezze scambiate per verità. Una comunità, come una persona, è viva non se osserva delle leggi, ma se ha esperienza di grazia e cerca di vivere di questa.

Inoltre, abbastanza normalmente, il vangelo è proposto come legge. Si presentano le sue “esigenze” invece della sua bellezza, ciò che dovremmo fare noi per Dio, invece di ciò che fa Dio per noi (spesso i titoli delle traduzioni dei vangeli vanno in questa direzione!). Solo chi scopre l’amore ha la gioia di rispondere all’amore con l’amore! Pare che il vangelo si riduca a nobili regole morali – più impossibili di quelle antiche – invece che essere sorgente di vita nuova nella libertà che Cristo ci ha dato perché restassimo liberi (Gal 5,1ss).

Spesso la predicazione domenicale sembra riportarci ai tempi di Giacomo l’apostolo, che dice: “Mosè (la legge), fin dai tempi antichi, ha chi lo predica in ogni città, poiché viene letto ogni sabato nelle sinagoghe” (At 15, 21). Ma il vangelo, da chi è predicato?

Anche ora nella Chiesa, come ci insegna Matteo (23,1ss), ci sono scribi e farisei, che legano pesanti carichi di leggi, decreti e normative, che normalmente riguardano gli altri, e li pongono sulle spalle altrui. Questo aumenta certo il loro prestigio di maestri sapienti, di padri prudenti e di guide illuminate. Ma mette in ombra il fatto che l’unico maestro interiore è lo Spirito che ci suggerisce ogni cosa e ci introduce nella verità tutta intera (cf Gv 16,13s), che l’unico Padre è colui la cui luce di amore splende su cattivi e buoni (cf Mt 5,45), che la vera guida è Gesù Cristo, che ci libera dal giogo della schiavitù alla legge per darci quello soave e leggero della libertà del Figlio (cf Mt 11,27-30).

Non siamo i definitori della legge naturale. Se è naturale, è già nel cuore di ogni uomo, che cerca ciò che è giusto, anche sbagliando. Siamo invece annunciatori del vangelo, che offre all’uomo una vita piena nel perdono. E il perdono suppone la trasgressione della legge, che giustamente ci condanna e dalla quale istintivamente ci difendiamo! L’ammissione del male, se non c’è perdono, è impossibile perché disperante! Come già detto, non siamo perdonati perché ci convertiamo, ma possiamo convertirci perché siamo perdonati.

Sembra che non si abbia fiducia nell’efficacia della parola evangelica. Si crede davvero che l’uomo è fatto da Dio e per Dio? Si ignora che il cuore si difende davanti a all’aggressione e si arrende davanti all’amore. È troppo evidente che un cucchiaio di miele dolcifica più di un vaso di assenzio; eppure molti pensano che mille rimproveri siano più efficaci di un gesto di comprensione.

A chi obbiettasse che così non si sa “dove si va a finire”, si può rispondere con Paolo che la legge, anche se dice la via della vita, è però incapace di darla: la “lettera uccide e lo Spirito vivifica”. La legge denuncia il male: è un servizio di morte. Il vangelo perdona: è un servizio che dà vita. Sul cuore di chi ascolta la legge c’è sempre un velo che impedisce di coglierne la condanna, perché ha paura del proprio male. Questo accecamento è tolto solo dalla conversione al Signore (cf 2Cor 3,3-16), che è misericordia. Paolo dice che il Signore è Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà (2Cor 3,18) – che è la possibilità di riconoscere il male e aderire al bene. E conclude: “E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine di gloria in gloria, secondo lo Spirito del Signore” (2Cor 3,7).

È lo Spirito che ci trasforma nel Figlio, non la legge. Anche se è giusto porre il divieto di buttarsi del terzo piano, a chi si è buttato – e tutti siamo caduti da ben più in alto! – non serve ripetergli: “Vedi come ti sei ridotto? Hai trasgredito la legge: sei colpevole!”. Giova piuttosto curarlo. La giustizia di Dio si radica nella misericordia e sboccia nel perdono. Le sue leggi non sono intese a punire i trasgressori, bensì a rivelare il loro male per condurli alla riconciliazione con lui e con i fratelli. E solo la conoscenza del bene può rivelare il male – che male è, se non si conosce il bene?[3]

omologazione

La tendenza va oggi verso l’omologazione generale: tutto deve essere “a norma”, se vuol aver diritto di esistere. Il mondo è effettivamente uno. Ma non è certo l’unità dei figli di Dio, che è tutto in tutti (1Cor 15,28)! La comunione non è mai omologazione: è rispetto e interazione di tutte le differenze, con un unico Spirito che opera in tutti, per il bene comune, dando a ciascuno la sua identità particolare (cf 1Cor 12,4-11) [4].

Se la divisione è morte, la differenza è vita! Dividere la testa dalle spalle è uccidere, ma distinguere la testa dalle spalle è necessario per vivere! L’omologazione non è unione che aumenta la vita, ma confusione che la toglie. Un omogeneizzato di uomo non è più un uomo!

Che rispetto c’è delle differenze e dei diversi doni nelle comunità e nella Chiesa? Non c’è il pericolo, con decreti e leggi, di ridurre la sposa di Cristo, bella, senza rughe e senza macchie (cf. Ef 5,27), a un frullato disgustoso?

È proprio inevitabile che tutti abbiano la stessa parola d’ordine e la stessa voce, diventando una macchina, un simulacro di persona? Non è meglio una “verità sinfonica”? Non è bello che ognuno canti la lode dell’unico Dio con la sua voce e il suo cuore, diverso da quello dell’altro?

L’illusione originaria di Adamo, la stessa di Caino, consiste nel non accettare l’alterità. Eliminare l’altro è eliminare me stesso, togliendo colui che fa esistere me come altro da lui. L’unione è nell’amore; e l’amore è sempre tra due distinti, nello Spirito di libertà!

libertà

Viviamo nell’epoca della “libertà compiuta”, sogno antico quanto l’uomo. Possiamo fare tutto e il contrario di tutto: liberi da tutto, ma per che cosa? La libertà è ciò che ci rende simili a Dio, o il contrario. Essa è essenzialmente ambigua: senza discernimento, invece di crescere, distrugga se stessa.

Inoltre la libertà, giunta al compimento, è come l’uva matura: insidiata da ogni uccello di passaggio. Oggi infatti può essere totalmente amministrata, e proprio dalla tecnologia che l’ha resa possibile, mettendo il mondo a servizio dell’uomo.

È un luogo di particolare vigilanza. Non giova né il rifiuto sdegnato della modernità, né il plauso incondizionato ad essa. Bisogna fare come chi cammina nella notte: per non inciampare in ostacoli o cadere in buche invisibili, alza bene il piede che getta in avanti, e stacca l’altro quando sente che il primo tiene.

L’uomo religioso corre sempre il pericolo di rinunciare alla libertà propria e impedire quella altrui. E tutto ciò a fin di bene, per timore di smarrirsi davanti alle infinite possibilità. La paura irrigidisce e blocca nella morte. È più sicuro osservare delle regole che essere responsabili delle proprie decisioni. Ma togliere la libertà è negarsi la possibilità di intendere e di volere, è amputarsi le gambe per paura di cadere camminando: è la “soluzione finale” dell’uomo!

Dio rispetta la nostra libertà, anche quando è contro di lui e contro di noi: se la togliesse, agirebbe contro di sé! “Alles in Ordnung” (“tutto in ordine”), si può dire solo delle lapidi in un cimitero!

La proposta di Gesù, Figlio di Dio e fratello nostro, ci offre un modello inesauribile per crescere nella libertà. Le varie leggi, se non servono a favorirla, mirano ad eliminarla. Tendenzialmente la re-ligione lega e ri-lega l’uomo alla legge, come già detto. O si arriva all’atteggiamento del Figlio, che conosce la legge di libertà (G 2,12), che è la libertà di amare come unica legge, o si nega l’umanità stessa dell’uomo. Non rimane che la falsa alternativa: essere schiavi come il fratello maggiore, o ribelli come il minore (cf. Lc 15,11-32). Nessuno dei due è figlio del Padre e fratello dell’altro.

Pentimenti

I pellegrini che chiedevano a Bonifacio VIII il primo giubileo, lo supplicavano, come narra il cronista Ventura, dicendo: “O Padre santo, benedici a noi prima che morte ci colga. Sappiamo dai nostri avi che ogni cristiano che visita nell’anno centesimo i corpi sei Ss. Apostoli Pietro e Paolo, va liberato di colpa e di pena”. Ignorando il Papa, come tutti i suoi predecessori, cosa fosse il Giubileo e restando incerto sul da farsi, portarono a Roma un vegliardo della Savoia, di 107 anni, per attestare che suo padre era stato a Roma nel 1200 per lucrare l’indulgenza plenaria, e gli raccomandò, se fosse stato vivo, di recarvisi pure lui quando fosse stato l’anno di grazia 1300. Tale indulgenza accordata all’inizio di ogni secolo fu confermata da due pellegrini francesi, anch’essi centenari. La testimonianza di tre vegliardi, più altri motivi, è valida per fondare una sana tradizione, soprattutto se corrisponde a un desiderio profondo dell’uomo, che in questo caso è lo stesso di Dio: la liberazione da colpe e pene. Così il Papa, dopo dubbi e consulti, cedendo alle pressioni della folla, la mattina del 22 febbraio del 1300 promulgò il primo Anno Santo, da ripetere ogni cento anni. Visti però i frutti, Clemente VI ne celebrò subito un secondo nel 1350, dimezzando l’intervallo di tempo stabilito; a sua volta Urbano VI, nel 1389, propose di celebrarlo ogni trentatré anni, in ricordo della vita terrena del Figlio di Dio fatto uomo.

Il Giubileo ci richiama al perdono del peccato e al condono della pena che esso comporta – il male va riparato. Ma non è vero che “chi rompe paga!”. Per tutti ha pagato tutto il Signore, sulla croce. Si tratta solo di accogliere la sua indulgenza infinita  per noi, perché Dio veramente vuole che i suoi figli siano liberi dal male e dalle sue conseguenze. Questo è il senso stesso della salvezza cristiana. È giusto rinnovarne il ricordo, soprattutto nei momenti di crisi.

L’indulgenza di Dio nei nostri confronti non deve però diventare un mercato: le indulgenze possono lucrare bene anche per conto terzi, come suggerirono i fratelli banchieri Fugger all’indebitatissimo arcivescovo di Magdeburgo. I mercanti sono di casa in ogni tempio, non solo ai tempi di Gesù!

L’amore del Padre, che sempre indulge, rende possibile il nostro ritorno a lui: il suo perdono eterno è “lucrato” dalla nostra conversione attuale a lui. Però guai a noi se facciamo come quegli empi che trovano nella sua grazia il pretesto alla propria dissolutezza (Gd 4). Dobbiamo comportarci da uomini liberi, non servendoci della libertà per coprire la nostra malizia (1Pt 2,16); altrimenti ci prendiamo gioco dell’indulgenza di Dio, senza riconoscere che la sua bontà ci spinge a conversione (Rm 2,4).

In vista di questa conversione – certi monaci fanno il voto di “conversione continua” -, il Papa oggi chiede giustamente perdono delle colpe passate della Chiesa.

Riconoscere gli errori e trarne insegnamento è quell’atto propriamente umano che permette il progresso, in ogni campo. È segno divino di trascendenza: l’uomo è più grande dei propri errori.

È positivo chiedere perdono circa le crociate, l’inquisizione, Galileo, ecc. È ancor più positivo chiedere perdono – e trarne le debite conseguenze! – dell’oppressione della donna, della spoliazione dei poveri, dell’economia ingiusta, della shoà e di ogni violenza. È un atto dovuto e nobile, purché questi fatti non si ripetano più.

Attenti però! Giove ci ha dato due bisacce. Vediamo bene gli errori altrui, ma non quelli che facciamo noi. Pentirci del peccato altrui è facile e poco onesto, se non riconosciamo il nostro con vergogna e rossore, per non farlo più. Bisogna che ci convertiamo dal “pentitismo” sulle malefatte altrui al “pentimento” delle nostre, come persona, comunità, chiesa e società!

Diversamente costruiamo sepolcri ai profeti che i nostri padri hanno ucciso, portando a compimento l’opera loro. Nascondiamo in un bel monumento funebre ciò che loro hanno fatto, per rimuovere dalla vista ciò che pure noi facciamo, e meglio di loro – a cuor leggero, con la presunta pietas di chi si pente e la buona fede di chi non vede! È bene che il cadavere puzzi fino alla decomposizione, che ne sentiamo disagio e vediamo, in malafede, l’atrocità di ciò che facciamo. Solo così può cessare la violenza che da Abele ad oggi cade su chi non può, o non vuole, combatterla con le stesse armi.

A questa generazione, come ad ogni altra, è chiesto conto dell’accumulo di ingiustizia che l’ha preceduta. Perseveriamo a viverne come del nostro tesoro – forse ormai non più che tanto aumentabile, ma certo ancora ben spendibile e più che mai temibile! – o ci convertiamo alla vita del Figlio e all’amore dei fratelli?

Abbiamo il sospetto che oggi ci sia nell’aria qualcosa di nuovo, rivelatorio e definitivo. Sia detto senza creare allarmismi – chi legge comprenda (Mc 13,14)! -: la possibilità di vita sulla terra è ora legata come non mai alla nostra conversione. Infatti la violenza di Caino che uccide ogni altro da sé – erano appena due fratelli! -, può essere realizzata a livello planetario.

Che faremo?

Faremo quello che i nostri padri hanno fatto e noi continuiamo a fare! Il problema è riconoscerlo, come “l’altro” malfattore e il centurione. Ogni rimozione peggiora la situazione!

La seconda venuta del Signore è e sarà come la prima, sotto il segno del suo fatale e necessario errore, connotata dalla sua Idiozia.

La nostra casa resterà deserta fino a quando non riconosceremo nel maledetto – nel Crocifisso e in tutti i dannati della terra – il Benedetto che viene a salvarci, colui che porta su di sé la maledizione della nostra violenza (cf Mt 23,39).

Allora batteremo il petto nostro – non quello altrui – e “ritorneremo”.

E sarà per noi il suo ritorno quotidiano, che salva la nostra storia di ogni giorno.

Fino a quando sarà compiuto il tempo e giungerà quel giorno e quell’ora che conosce solo il Padre, perché riguarda i suoi figli. Sarà quando tutti finalmente conosceremo lui e noi stessi nel Figlio.

[1] In essa si parla della “duplice spada”, quella temporale e quella spirituale, ambedue a disposizione del Sommo Pontefice. Il suo modo di intendere il regno di Dio è certo assai diverso da quanto abbiamo visto. Ma non fu il primo né sarà l’ultimo a pensare così; è in buona compagnia, con “capi, soldati e malfattori” di tutti i tempi, che sempre si aggirano attorno al Calvario. Su di loro è impresso il numero della bestia, che è un nome d’uomo. Chi ha intelligenza calcoli tale cifra, che è sempre uguale a se stessa (cf Ap 13,18), anche se ha molte maschere.

[2] Tra molti, molti millenni, un discendente d’un attuale ominide, in vacanza su un fiume che serpeggia pigramente attorno al 45° parallelo nord, troverà in una cava delle ossa di un bipede; e gli misureranno la scatola cranica, per vedere a che livello di evoluzione fosse. La cosa susciterà le più disparate ipotesi tra gli specialisti, in cerca di capire se e quale cultura ci fosse allora in quel luogo . Anche sul nome non andranno d’accordo: qualcuno lo chiamerà, dal nome del luogo, neopadanantropoide, altri, dalla gran mole di rifiuti ritrovati e appartenenti all’epoca, preferirà chiamarlo col nome strano si “sozzura sozzurans”.

[3] Circa l’atteggiamento della Chiesa primitiva con i divorziati, è interessante: Giovanni Cereti, Divorzio. Nuove nozze e penitenza nella Chiesa antica, Bologna 1997. Il problema non è quello di mettere in discussione dei principi che si ritengono giusti o chiari, ma come applicarli in concreto, nella complessità e conflittualità della situazione, secondo il principio più generale della misericordia. Se la morale è una scienza, la pastorale dev’essere un’arte.

[4] In questa luce si capisce l’istanza positiva delle sette e dei regionalismi, anche se la risposta è inadeguata e reazionaria: si ferma all’aspetto particolare rifuggendo da quello generale.

Ascolta la sua voce: Lectio

Facebooktwitterlinkedinmail

Lascia un commento

Your email address will not be published. Required fields are marked *

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Potrebbe interessarti anche