Il 28 gennaio scorso, presso la Sala Conferenze della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, Gian Maria Fara, ha presentato il Rapporto Eurispes al Paese. Nel suo articolato discorso c’è questo passaggio particolarmente illuminante che descrive le relazioni che si vivono nella società italiana.
Il capitolo ha come titolo:
TRASFORMARE LA POTENZA IN ENERGIA: GLI OSTACOLI
“Siamo un Paese vivace, ricco di esperienza e di ingegno, di opportunità e di intelligenza, erede e custode di un immenso patrimonio storico e culturale, dotato dalla natura di incomparabili bellezze ambientali e paesaggistiche, un Paese che però non riesce a mettere a frutto questa enorme ricchezza, queste qualità uniche.
Anzi, spesso, invece che valorizzare al meglio e per il benessere collettivo queste risorse, gli italiani trascurano, sprecano, quando non distruggono, ciò che il caso, la storia e il Creatore hanno messo a loro disposizione. Sul carattere degli italiani, sulla loro incuria, sui tanti vizi e difetti si sono esercitate schiere di studiosi e di ricercatori e sarebbe qui del tutto inutile aggiungere altre spiegazioni sui comportamenti e sulla psicologia di un popolo come il nostro.
Vale la pena, tuttavia, di soffermarsi su alcuni aspetti del tutto peculiari che ci impediscono, appunto, di mettere a frutto il patrimonio ovvero di trasformare la potenza in energia.
Il primo aspetto, di carattere sociologico e psicologico, è quello dell’invidia e della gelosia; il secondo aspetto, di carattere più pratico e organizzativo, investe il ruolo delle Istituzioni, la vocazione alla produzione continua di leggi e regolamenti e la presenza di una burocrazia ossessiva che pretende di regolare la vita dei cittadini e delle imprese sin nei minimi particolari; il terzo aspetto, è quello relativo alla incapacità della società italiana di “fare sistema”.
Il primo aspetto. In genere, la gelosia per il successo del vicino, l’invidia per i risultati o la ricchezza prodotta da altri dovrebbero mettere in moto lo spirito di emulazione, il desiderio di fare di meglio e di più, di superare l’avversario o il concorrente con risultati ancora più brillanti. Scriveva Paolo De Nardis [2000] in un suo pregevolissimo saggio dedicato al tema: «L’invidia da peccato inconfessabile, vizio capitale nella teologia cattolica, ha svolto nella modernità una funzione importante (…) La Riforma protestante, collante ideologico del protocapitalismo, l’ha trasformata in competitività». L’invidia e la gelosia, se volte in positivo, diventano il propellente indispensabile alla crescita e allo sviluppo. Stimolano la concorrenza nel mercato privato; spingono a comportamenti più virtuosi, apprezzabili e spendibili sul piano del ruolo e dell’immagine, nel pubblico.
Di fatto, nel nostro Paese ciò non accade. Invidia e gelosia si traducono in rancore e denigrazione. Odiamo e denigriamo il nostro vicino più bravo e, invece di impegnarci per raggiungere risultati migliori e superarlo in creatività, efficienza e capacità, spendiamo le nostre migliori energie per combatterlo, per mortificarne i successi, per ostacolarne o addirittura bloccarne il cammino.
È la sindrome del Palio di Siena la cui regola principale è quella di impedire all’avversario di vincere, prima ancora di impegnarsi a vincere in prima persona. E sempre senese era l’anima che dice a Dante: «Fui molto più lieta delle sfortuna altrui che della mia fortuna» nel girone del Purgatorio che accoglie gli invidiosi ai quali «un fil di ferro i cigli fora e cusce sì, come a sparvier selvaggio si fa però che questo non dimora» [XIII canto].
Siamo di fronte ad un vero e proprio “spreco di potenza”, ad una filosofia del contro invece che del per. Si tratta, evidentemente, di energie dissipate, sottratte all’idea benefica della competizione e della concorrenza che rispondono alla logica negativa del “se non riesco a farlo io, non devono farlo neanche gli altri”.
Se poi qualcuno riesce ad emergere… L’Italia ha sempre avuto un rapporto difficile con i suoi figli eccellenti e con le loro opere. Non è un caso, per fare qualche esempio, che morirono lontano dall’Italia Cristoforo Colombo (che scoprì l’America), Vespucci (che le diede il nome), Caboto (che la esplorò) e, nel campo della musica e del teatro, Verdi, Goldoni, Rossini e Bellini furono tutti più apprezzati all’estero che in patria.
E ancor prima, grande fra i grandi, Dante Alighieri e con lui Petrarca e Galileo poterono ritornare nella città natale solo dopo morti. Questa mentalità – che potremmo definire paesana e contadina più ancora che provinciale – resiste ancora in alcune aree del Paese, quelle stesse segnate dal disagio, dal ritardato o mancato sviluppo, dalla maggiore presenza di povertà.
Per fortuna le nuove generazioni, anche in campo imprenditoriale, stanno via via superando questo modo di pensare ed indirizzano intelligenza ed energia nella giusta direzione, consapevoli che l’avversario, il concorrente non è più il vicino di casa e che la competizione, così come il mercato, ha assunto dimensioni globali.
Il secondo aspetto – quello che riguarda la burocrazia e la iperproduzione di norme, leggi e disposizioni – rappresenta il vero gancio che trattiene la crescita e mortifica spesso la volontà e l’ingegno degli spiriti migliori. A questo tema abbiamo dedicato, quasi per intero, le Considerazioni generali dello scorso anno e pare che il Governo abbia deciso di prendere di petto la questione.
Non vi è giorno che il buon Dio ha messo in terra che non vengano promulgati una legge, una norma o un regolamento che, sebbene pensati secondo le migliori intenzioni amministrative, non finiscano per complicare la vita dei cittadini e delle imprese.
La paranoia regolativa – da un lato, dell’Unione europea e dall’altro di Governo, Parlamento, Istituzioni locali e Agenzie Nazionali – ha ormai raggiunto livelli insopportabili e mentre da una parte si costituiscono e si insediano commissioni per la semplificazione o per la riduzione o l’eliminazione di leggi ritenute superate od obsolete, dall’altra si continua, come in una gara, a produrne di nuove che si intrecciano, si accavallano, si contraddicono con quelle già esistenti. Resta da stabilire se, data per scontata la buona fede dei regolatori, questo gioco perverso sia frutto di incapacità, ignoranza o, peggio ancora, superficialità.
Sono milioni le ore spese dalle imprese per poter soddisfare la “fame di carta” dei pubblici uffici e, ad onta della decantata informatizzazione delle procedure, queste stesse imprese sono costrette a dedicare ai costi della burocrazia fette consistenti del loro fatturato.
In un Paese nel quale la pressione fiscale ha raggiunto livelli insostenibili, il prezzo pagato al “disbrigo” delle pratiche burocratiche diventa un ulteriore balzello, risorse sottratte allo sviluppo e alla crescita delle imprese, valutabili in diversi miliardi di euro l’anno. Sorte migliore non tocca ai cittadini. Non vi è attività, esercizio di un diritto, espressione di un bisogno che non debbano essere regolati da una certificazione, autorizzazione o permesso. Per averne le prove basta decidere di cambiare residenza o di ripianare le buche di una strada poderale, di chiedere l’allaccio di una utenza o di poter godere dei benefici previsti, appunto, da una legge. Spesso, si rinuncia al presunto beneficio perché i costi, il tempo sprecato, i fastidi, superano di gran lunga il valore del beneficio stesso.
In questo senso, l’Italia è un paese prigioniero. Prigioniero delle Istituzioni, della burocrazia e delle carte. Un sistema siffatto scoraggia la libera iniziativa, mortifica le imprese, annichilisce i cittadini ed è incapace di mantenere i ritmi e i tempi che la modernità richiede e impone. Weber definiva la burocrazia “spirito coagulato” e segnalava il pericolo di una progressiva autoreferenzialità degli apparati pubblici e la loro tendenza ad espandersi e a praticare forme di autotutela, di conquista e difesa di sempre nuove prerogative e privilegi.
Si tratta quindi di “sciogliere” questo coagulo per evitare forme di arroccamento e di isolamento che producono separatezza e distanza da coloro che dovrebbero essere i primi e diretti beneficiari del lavoro svolto dalla burocrazia e cioè i cittadini. Per rappresentare plasticamente la situazione ricorremmo, nel Rapporto Italia del 1999, alla metafora di Gulliver trattenuto al suolo dai mille fili con cui i minuscoli lilliputziani l’avevano legato.
Da allora la situazione non è molto cambiata e anche se sono già passati sedici anni, l’Italia è ancora, come Gulliver, un gigante imbrigliato.
Il terzo aspetto sul quale è necessario spendere qualche considerazione riguarda la incapacità della società italiana di “fare sistema”. Siamo di fronte ad una società che Z. Bauman definisce “liquida”, e che noi preferiamo definire “evanescente” nella quale ognuno pensa a se stesso e che non riesce ad elaborare un progetto complessivo. Su questo tema il dibattito è aperto e ha coinvolto numerosi commentatori. Il limite della discussione si rivela, però, nel momento in cui si dovrebbero individuare le cause del malessere italiano, le responsabilità e le possibili soluzioni. Secondo alcuni commentatori, la società sarebbe genericamente, insieme, causa e responsabile della situazione. Insomma, la colpa è di tutti e di nessuno, ma non vi è, nel dibattito, alcun accenno al ruolo e alle responsabilità della nostra classe dirigente, al suo egoismo, alla sua inadeguatezza, alla sua incapacità di anticipare e gestire le tendenze o valorizzare le potenzialità che le singole parti pure esprimono. Sembra che il nostro Paese faccia di tutto per negare il proprio valore e che a noi manchino il gusto e il piacere di sentirci italiani, sottovalutando e non facendo gran conto né di quelle prerogative nelle quali non siamo inferiori agli altri né di quei concittadini che abbiano conseguito risultati di eccellenza.
Vi è sicuramente in ciò un certo provincialismo, per il quale ciò che viene dall’estero sembra migliore. Non si spiega altrimenti perché tanti nostri marchi, di prodotti oltretutto che si rivolgono principalmente al mercato interno, da Candy a Mon Chèri, da Tod’s a Kinder, da Hogan a Diesel a Miss Sixty, solo per citare i primi che vengono alla mente, abbiano nomi inglesi, francesi o tedeschi.
Si aggiunga anche che all’estero ciò che è chiaramente italiano, quando ha una grande diffusione ed un successo planetario, viene assunto come proprio: gli americani sono convinti che la pizza sia una specialità nord-americana, i tedeschi che il motore a scoppio sia stato inventato in Germania, ma chi si appropria con più disinvoltura delle glorie altrui è sicuramente la Francia, dove si ritiene che la Nutella, quanto c’è di più italiano, sia un tipico prodotto francese.
Fortunatamente sembra che questo vezzo stia perdendo vigore ed in molti settori ricresca la fierezza del nome “italiano” a cominciare da quelli della moda, dell’industria del lusso, ma anche di quello automobilistico”.