Quale modello di integrazione per il Paese Italia?

Il caso del sindaco di Riace è destinato a passare dalla cronaca alla storia, non tanto per esaltare le sue gesta ma per aver bloccato una forma generativa di integrazione degli immigrati. È l’«effetto struzzo», il nascondersi sotterrando la testa nella sabbia, senza voler vedere la realtà. I media non sono esenti dalla loro responsabilità sociale, infatti non basta accogliere gli immigrati con un approccio caritativo, come sta facendo la Chiesa in Italia, occorre raccontare una cultura politica in grado di farlo. Il giornalismo ha bisogno di lenti antropologiche che mettano a fuoco il tema dell’integrazione senza dimenticare che tra il 1876 e il 1988 gli emigrati italiani verso le Americhe e l’Oceania sono stati circa 27 milioni. Certo, se la cultura politica populista nutre l’idea che l’immigrato deve rimanere lontano, le condizioni per raccontare l’integrazione si complicano. Il diverso è percepito come un pericolo, e ciò avviene quando nello spazio pubblico il giornalismo fa scomparire i volti e non racconta le storie personali e politiche dei Paesi di provenienza. Questo modus vale per chi arriva, ma anche per i 250.000 italiani che in questi ultimi due anni hanno lasciato il Paese. ammosnINei media la discussione politica sul trema dell’immigrazione è molto passionale, a volte violenta e piena di polemiche che impediscono un dialogo costruttivo. Si rischia di considerare moralmente cattivi le persone che salvano le vite umane in mezzo al mare. Polito ultimamente parla di cattivismo: “Il cattivismo è un disturbo bipolare della politica, perché divide il mondo in amici e nemici, e inibisce la capacità di includere, che è poi il fine ultimo della democrazia”. Come rimettere al centro il bene comune? Aggiunge Polito: “Ma il cattivismo è un disturbo bipolare della politica, perché divide il mondo in amici e nemici, e inibisce la capacità di includere, che è poi il fine ultimo della democrazia… Il cattivista incattivisce gli altri. Mentre il problema nelle società complesse è cercare la coesione, conciliare interessi e aspirazioni diverse e talvolta opposte, il cattivista produce altri cattivi”. Insomma così altro che integrazione si produce disgregazione!!!

Invece i quattro verbi usati dal Papa per coordinare un’azione politica in vista di un’integrazione umana sono “accogliere, proteggere, promuovere e integrare”. È un programma lapidario che richiede un cambio di mentalità del giornalismo. La Chiesa non lo ribadisce per ingenuità ma per l’imperativo della carità unita alla responsabilità e alla prudenza: «Un governo – ha ribadito il Papa – deve gestire questo problema con la virtù propria del governante, cioè la prudenza. Cosa significa? Primo: quanti posti ho? Secondo: non solo riceverli, ma anche integrarli».

L’integrazione inizia dal chiamare i popoli e le persone per nome, spiegare il contesto internazionale, capire la possibilità reale di integrazione, e poi, per i singoli immigrati prevedere la conoscenza dei diritti e dei doveri del Paese che accoglie, le sue leggi, la conoscenza della lingua e così via. Insomma includere legalità e sicurezza, come è stato ribadito più volte dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Verso quale modello di integrazione?

Fino a qualche anno fa l’integrazione avveniva in modo quasi naturale, gli immigrati sceglievano i territori delle ex colonie, gli algerini e tunisini immigravano in Francia, i pakistani, gli indiani e altri ancora in Inghilterra e i turchi in Germania. Attualmente sono in crisi anche i modelli “assimilazionista” francese e quello “multiculturalista” inglese e tedesco.

La via francese all’integrazione si conforma a una logica di uguaglianza tra gli individui e non al riconoscimento di diritti collettivi alle minoranze, mentre l’inclusione avviene su base individuale attraverso l’accesso alla cittadinanza, fondato sullo ius soli. L’interazione è favorita dalla condivisione della stessa lingua, dall’accettazione degli stessi principi e dell’accesso allo stesso sistema di formazione scolastico.

Il modello “multiculturalista” inclusivo di Paesi come Inghilterra, Olanda, Paesi scandinavi, riconosce giuridicamente non solo il singolo immigrato ma anche la sua comunità di appartenenza e permette alle minoranze culturali di partecipare alla vita sociale con i propri valori e tradizioni. Agli immigrati non chiede di rinunciare alla propria cultura e tradizione ma di rispettare le leggi e le regole democratiche. È il riconoscimento dei loro diritti collettivi che fonda la libertà degli immigrati.

C’è poi il modello “multiculturalista” esclusivo presente in Germania, Austria ed altri Paesi, che da una parte esclude politicamente e socialmente gli immigrati ma dall’altra li riconosce con uguali diritti nella sfera socioeconomica. L’immigrato è accolto come lavoratore ospite, mentre il modello ha favorito alle comunità di immigrati di conservare la propria lingua, praticare il culto, continuare le tradizioni del Paese di provenienza.

Il modello di integrazione italiano è ibrido, “assimilazionista” negli intenti e “multiculturalista” negli effetti. La legge n. 91/1992 sulla cittadinanza è tra le più severe in Europa, prevede che può essere richiesta dagli stranieri dopo 10 anni di residenza in Italia o dopo due anni di matrimonio con un italiano. Nel Regno Unito e in Francia devono invece passare 5 anni, in Germania 8 anni. Nel 2017 i passaporti tricolori sono diminuiti a 146 mila, 55 mila in meno del 2016.

Così la normativa sulla cittadinanza andrebbe integrata per permettere ai figli di immigrati che lavorano e pagano le tasse di acquisire la cittadinanza attraverso l’introduzione del principio dello «ius soli temperato», che prevede la stabilità della famiglia di origine o un percorso scolastico. Gli italiani di origine straniera sono 2,9%. Mancano norme di dettaglio che coordinino le funzioni degli apparati addetti all’accoglienza e regolino l’insegnamento delle leggi, della lingua e degli usi e costumi italiani.

Gli eventi degli ultimi anni hanno offuscato la nitidezza dei modelli: anzitutto in Francia con la rivolta nelle banlieues del 2008, la crisi sociale, gli attentati terroristici di Parigi, Nizza, Saint-Etienne-du-Rouvray e la radicalizzazioni di molti giovani immigrati musulmani di seconda generazioni. Poi in Inghilterra con gli incidenti in alcune città del nord (2001), gli attentati del 2007 e la Brexit e in Germania dopo la riforma legge cittadinanza, «linea Merkel» dell’accoglienza ad oltranza e l’accordo con la Turchia.

Per tutte queste ragioni si dovrebbe elaborare un nuovo modello di integrazione europeo, una sorta di minimo comune denominatore dei modelli analizzati che includa programmi, finanziamenti, sperimentazioni sul territorio e controlli.

Del resto la verità ferisce sempre mentre la arginiamo. In molti ritengono che il problema dei profughi e degli immigrati sia più pericoloso del terrorismo. È la «sindrome dell’invasione». In alcuni servizi radiotelevisivi sembra che tutti i migranti siano islamici, e che tutti gli islamici siano terroristi. Al di là dei numeri, però, gli immigranti sono persone, hanno un nome e una storia di vita. Certo che la politica deve regolamentare le entrate, ma le storie contano e fanno la differenza. Va riconosciuto invece che il giornalismo che si sta distinguendo è quello sportivo che narra un’integrazione possibile con esempi come la campionessa di pallavolo, Paola Egonu, il calciatore Balotelli e altri ancora.

Lo sappiamo. Le paure si vincono con l’incontro e il confronto, è inscritto nella storia dei popoli, l’alternativa è l’insicurezza o la guerra. Romano Prodi ha ribadito nel luglio scorso che «in Africa serve un piano Europa-Cina per regolare i flussi migratori», una sorta di Piano Marshall per l’Africa. Alla domanda sulle paure dell’immigrazione, lo statista italiano ha risposto: «Senza la guerra in Libia non mi farebbe paura niente. Le migrazioni sono sempre esistite. Ma queste non sono gestite. Tutte le cose non gestite fanno paura. Gheddafi era un dittatore, ma con lui si facevano accordi».

È la storia recente a ricordarcelo: lo sbarco degli albanesi nel 1987, seguito dall’esodo polacco e ucraino ci dice che un’integrazione è stata possibile ed è servita anche a imprese e a famiglie italiane. La sfida di questi prossimi anni è simile a quella di ieri, ma occorre un giornalismo maturo per distinguere la percezione fondata sulla paura dalla realtà che si basa su studi, dati e modelli culturali.

Per approfondire: Ricostruiamo la politica

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