La legittima difesa. I limiti morali e giuridici per non diventare un far west

Riflettere in modo critico sulla legittima difesa è impopolare. Lo so. Viviamo un tempo pieno di paura in cui gli istinti prevalgono sulla responsabilità e la fiducia a costruire comunità. Tuttavia continuano a risonare nella coscienza sociale e civile le parole di Francesco Sicignano, il pensionato di Vaprio d’Adda che, nell’ottobre del 2015, ha ucciso con un colpo di pistola un ladro che era entrato nella sua villa: “E’ un incubo tutt’oggi, ci penso tutte le notti. Io non gli ho chiesto di venire a casa mia. Ho sparato solo un colpo. In tre secondi devi decidere cosa fare. E’ un mio diritto stare tranquillo. A livello psicologico, sei rovinato“.
La testimonianza ritorna attuale grazie all’intervista di Piero Badaloni conduttore di “Avanti il prossimo” di Tv2000.
Ma le domande morali e giuridiche che si aprono sono molte. E’ per quello che ho scelto di approfondire il tema anche se la lettura sarà un pochino pesante. Ma ne va del nostro vivere sociale.

Anzitutto la legittima difesa nel nostro Ordinamento è regolata dal Codice Penale, all’articolo 52. Ecco il testo:
1) Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa.
2) Nei casi previsti dall’art. 614, primo e secondo comma, sussiste il rapporto di proporzione di cui al primo comma del presente articolo se taluno legittimamente presente in uno dei luoghi ivi indicati usa un’arma legittimamente detenuta o altro mezzo idoneo al fine di difendere:
a) La propria o l’altrui incolumità; b) I beni propri od altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo d’aggressione.
3) La disposizione di cui al secondo comma si applica anche nel caso in cui il fatto sia avvenuto all’interno di ogni altro luogo ove venga esercitata un’attività commerciale, professionale o imprenditoriale.

Gli elementi morali costitutivi della legittima difesa

La legittima difesa, riconosciuta dalla legislazione penale di tutti gli ordinamenti democratici come una causa di giustificazione, nasce con il diritto romano, ed è stata regolata prima nella legge delle Dodici Tavole e poi nel Digesto, in cui venne definita con la formula vim vi repellere licet (è lecito respingere la violenza con la violenza). Da subito l’istituto si caratterizzò per due elementi specifici: l’ingiustizia dell’aggressione (iniusta aggressio) e l’imminenza del pericolo (periculum praesens) per difendere non un diritto di proprietà ma il bene supremo della vita. Successivamente subì una profonda evoluzione. La codificazione preunitaria, che si ispirava al codice francese del 1810, considerò la legittima difesa come un istituto speciale che tutelava alcuni reati contro la persona, mentre, solo nel codice penale Zanardelli (1889) l’istituto divenne di carattere generale. Il codice Rocco (1930), con l’art. 52 1° comma attualmente in vigore, segnò un’ulteriore tappa estendendo la difesa anche alle cose, che fino ad allora non erano lecitamente difendibili, e introducendo il principio di proporzione come garanzia «al fine di impedire che alla protezione di interessi meramente patrimoniali rischiassero di venire sacrificati interessi di importanza molto maggiore»[3], come ad esempio il valore della vita. A questo riguardo la Corte di Cassazione ha aggiunto: «Dal confronto fra la formulazione del codice Rocco – che si riferisce ad una situazione di un pericolo attuale di una offesa – e quella adottata dal codice Zanardelli – nel quale si parlava di respingere una violenza attuale – emerge chiaramente che la nuova previsione è più ampia essendo stato anticipato il momento utile per l’esercizio della difesa legittima: non è necessario, infatti, che sia in atto l’offesa, ma solo il pericolo dell’offesa»[4].

Ultima tappa che caratterizza questa evoluzione è la legittima difesa domiciliare introdotta dalla riforma del 2006. La teologia morale, che ha accompagnato questa evoluzione nel tempo, permette di difendere la propria vita o quella dei propri familiari e delle persone di cui si è responsabile, per difendersi da un’aggressione ingiusta in atto, fino all’uccisione dell’aggressore, tenendo però in conto la giusta proporzione tra il male inferto e il bene minacciato. La legittima difesa nasce quindi per consentire la tutela di un diritto minacciato da un’offesa ingiusta, non per punire l’aggressore.

 Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, nel prevedere l’istituto, sottolinea che «la legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere» (n. 2265).

Ma quali sono i limiti e le caratteristiche che la teologia morale prevede per la legittima difesa? Anzitutto va sottolineato che non si tratta di un’offesa ma di una difesa da un’aggressione in atto, che non significa né prevenzione di una possibile aggressione, né una risposta ad un’aggressione già avvenuta o che è stata volontariamente provocata.

La risposta a un’aggressione oggettivamente ingiusta può arrivare fino all’uccisione «solo se non vi sono altre possibilità, né sul piano di possibili vie o mezzi diversi per ottenere lo scopo, né sul piano dell’entità del male che si arreca all’altro. (…) La legittima difesa, e nel suo caso estremo dell’uccisione, è comunque l’estrema ratio del difendere la vita» [5]. In più deve esserci proporzione tra il male causato e il bene minacciato, la sola situazione di pericolo non giustificherebbe azioni offensive che recherebbero danni maggiori. Per quanto la difesa possa essere violenta, il livello di reazione deve sempre essere proporzionato al male che l’aggressore sta provocando. Infatti ciò che la legittima non sono l’istinto, le emozioni o l’innocenza morale dell’aggredito, come ad esempio la difesa di un bambino innocente, ma l’aggressione ingiusta che non è stata né voluta né provocata. In altre parole va compreso che la legittimazione della difesa non è data dal bene da difendere, ma dalla ragione e «dal principio per cui lo si difende: la difesa potrà anche fallire e l’aggressore potrà anche realizzare il suo scopo, ma colui che si difende o che difende un altro testimonierà con la sua azione che il male non deve vincere e sotto questo profilo emergerà sempre come vincitore dal confronto con l’aggressore»[6]. Altrimenti se relativizzassimo il valore della vita significherebbe escludere, «negare all’altro, qualcosa che è ancora più grande del diritto alla vita: il diritto alla stessa identità di uomo, il diritto di restar uomo tra gli uomini» [7].

La legittima difesa generale

Questi princìpi generali, ispirati dalla morale cattolica, sono stati recepiti nell’Ordinamento italiano, tanto che gli elementi costitutivi della legittima difesa generale, regolata dal 1° comma dell’art. 52, sono: la necessità di difendersi, l’inevitabilità dell’offesa e la proporzione fra la difesa e l’offesa.

La «necessità» è la sola condotta che, idonea a neutralizzare il pericolo, è in grado di conseguire un risultato tale da determinare il danno minore all’aggressore. Mentre l’inevitabilità dell’offesa, principio voluto dalla Corte di Cassazione[1], comprende i requisiti della necessità e dell’attualità del pericolo. In altre parole se Tizio viene attaccato da Caio con un coltello e, data la distanza che li separa, può sparare in aria per impaurirlo o ferirlo, è moralmente obbligato a non ucciderlo. Altrimenti si tradirebbe la logica dell’istituto nato per consentire la difesa di un diritto minacciato e non per sostituirsi allo Stato nel punire l’aggressore[2].

Ma c’è di più. Il nostro codice penale è uno dei pochi a contenere anche il criterio di «proporzionalità» tra difesa e offesa che permetta ai giudici di valutare in caso di conflitto di valori e di beni.

La gerarchia di valori che ispira l’applicazione e la successiva interpretazione sono quelli stabiliti dalla Costituzione, in cui i beni patrimoniali sono considerati «beni-mezzo», rispetto ai «beni fine», che sono quelli personali, e dal principio dell’art. 2 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1950) che afferma: «La morte non si considera inflitta (…) quando risulta da un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario per assicurare la difesa di ogni persona dalla violenza illegale».

 La difesa di un diritto patrimoniale, che comporti la lesione di un bene personale, può essere legittima, purché sussista la proporzione tra il danno minacciato e quello cagionato. Una sentenza della Cassazione ci permette di comprendere la corretta applicazione del principio. Un tabaccaio, in seguito ad una rapina, spara alcuni colpi di pistola in aria e all’auto vuota dei ladri, in un secondo tempo invece decide di far fuoco ai rapinatori mentre fuggono, ferendone gravemente uno.

La Corte ha ritenuto la prima condotta conforme alla legittima difesa, ha invece condannato il secondo tipo di azione (l’esplosione di colpi d’arma da fuoco con l’auto in movimento) per eccesso colposo. I giudici hanno ritenuto che la pistola, a causa della sua pericolosità, «avrebbe dovuto essere impiegata con grande avvedutezza, prudenza e con la consapevolezza di possedere adeguata perizia nel suo maneggio» [a]. Per essere legittima, la reazione violenta tenuta dalla vittima, avrebbe dovuto costituire l’unico mezzo per impedire l’aggressione al patrimonio ed essere proporzionata all’offesa. Il tabaccaio avrebbe dovuto intimidire i malviventi o rallentarne la fuga colpendo le ruote o l’auto, ma non i ladri.

Va sottolineato come il principio di proporzionalità abbia ispirato e disciplinato molti altri ordinamenti per le sue indubbie qualità: permette un bilanciamento tra l’offesa arrecata e l’offesa minacciata, dimostra che l’offeso, per il quale sussiste la necessità di difendersi, non può sottrarsi al pericolo senza offendere l’aggressore[b]. Questo principio ha fino ad ora guidato i giudici a decidere tra beni omogenei (ad es. patrimonio contro patrimonio, etc.), sia a fronte di beni in contrasto (vita contro patrimonio ad esempio).

Per questo, opportunamente la Corte ha richiamato le due garanzie del principio: «Il giudizio di proporzione, che presuppone la verifica positiva della necessità e dell’inevitabilità dell’offesa, lungi dall’essere un astratto confronto fra gli interessi contrapposti, si configura come un giudizio sulla fattispecie concreta, consistente nel bilanciamento tra il rispettivo grado delle offese subite, tenendo presente tutte le circostanze del fatto» [c].

Ci chiediamo: i principi della legittima difesa generale valgono anche per quella speciale? [d]

Legittima difesa speciale

 La riforma del 2006, introducendo il secondo e terzo comma all’art. 52, regola una nuova forma di autotutela che cambia le disposizioni fin qui analizzate. Si tratta, infatti, come sostenuto nel corso dei lavori parlamentari del «diritto di autotutela in un privato domicilio, che crea un vero e proprio diritto, una situazione giuridica soggettiva» [7] che supera la nozione e la concezione della proporzione, la quale è alla base della disciplina che fino ad oggi reggeva e caratterizzava la legittima difesa nel nostro ordinamento.

La riforma prevede quattro condizioni per poter essere applicata: violazione di domicilio; l’estensione del domicilio anche ai luoghi di esercizio dell’attività commerciale[8]; l’obbligo di detenere un’arma legittimamente; la necessità di difendere solo i beni propri od altrui. In altre parole se ricorrono queste quattro condizioni il principio di proporzione non è più da verificare in giudizio ma è di fatto previsto dal legislatore anche se solo in astratto.

 Il messaggio politico che passò è stato che il privato cittadino, se vuole tutelare un diritto patrimoniale, può usare un’arma, anche per offendere, fino ad uccidere. Tecnicamente la sua applicazione ha bisogno di più garanzie, anche se introduce una «difesa preventiva e anticipata» senza tener conto del «pericolo», situazione di fatto che rende probabile il danno, e dell’«attualità» che circoscrive i limiti temporali della difesa. Ma sulla reale applicazione la dottrina è divisa[10].

 Il principale argomento di chi la giustifica è stato che l’allarme rapine si doveva fronteggiare con l’aggiornamento della nostra legislazione a quella francese, spagnola e inglese[11]. Infatti il Codice Penale francese, in vigore dal 1994, stabilisce la non punibilità del fatto compiuto per legittima difesa di se stessi o di altri, a eccezione del caso in cui sussista sproporzione fra i mezzi di difesa impiegati e la gravità dell’aggressione. Considerando la gravità intrinseca di determinate aggressioni patrimoniali, introduce la presunzione che l’autore di un atto abbia agito in stato di legittima difesa per respingere di notte l’ingresso in un luogo abitato realizzato con violenza o inganno; per difendersi contro gli autori di furti violenti[12].

Anche il Codice Penale spagnolo, in vigore dal 1995, prevede la non punibilità di chi abbia agito per difendere la persona o i diritti propri o altrui contro un’aggressione illegittima. In caso di difesa dei beni, ogni attacco è considerato aggressione illegittima quando realizzi una situazione di grave e incombente pericolo di loro deterioramento o perdita. Se la vittima agisce in difesa della dimora, anche il solo ingresso indebito è considerato aggressione illegittima. Quanto al giudizio di proporzione fra difesa e offesa, stabilisce che la reazione è sempre legittima quando la vittima abbia adoperato un mezzo ispirato razionalmente al principio della necessità [13]. In Inghilterra e Scozia, ordinamenti di common law, l’applicazione della legittima difesa speciale è demandata al verdetto delle giurie popolari, solitamente benevoli con chi ha dovuto difendersi.

L’applicazione più estrema della legittima difesa domiciliare rimane quella regolata dal codice dello Stato di New York che permette all’offeso di uccidere il ladro se ritiene «ragionevole» che ciò sia necessario per prevenire o mettere fine al furto stesso. I requisiti di una difesa personale sono, pertanto, la necessità di difendersi dal pericolo attuale di un’offesa immediata ed ingiusta, e anche l’utilizzo ragionevole della forza [14].

La disposizione ignorata dal nostro legislatore è quella del Codice Penale tedesco che stabilisce il principio per cui non è punita la vittima che abbia oltrepassato i limiti della legittima difesa a causa di confusione, paura o spavento [15].

La parte più ostile alla riforma ritiene che si sia creato un concetto di legittima difesa a due velocità. Da un lato permane la legittima difesa generale che nega la punibilità di chi ha commesso il fatto e pretende l’onere della prova per dimostrare la proporzionalità della propria risposta al pericolo sofferto. Dall’altro lato invece, con la legittima difesa speciale, se una persona reagisce all’interno della propria abitazione, gode di un regime di inversione dell’onere della prova, in quanto si è stabilito un orientamento di natura processuale a favore dell’offeso, senza dovere, dimostrare di avere agito in conformità con il principio di proporzionalità.

 Poco dopo la sua approvazione, la riforma fu criticata da una cinquantina di docenti di diritto penale e di procedura penale, e da alcuni noti penalisti, come ad esempio C. F. Grosso che, sul quotidiano La Stampa del 25 gennaio 2006, affermò come in Italia si fosse introdotta «una sorta di licenza di uccidere, che indurrà i cittadini a dotarsi di armi, su un modello di violenza di tipo americano» [16].

Verso una conclusione

Così intesa, la legittima difesa anzitutto non risolve il problema della sicurezza, e non legittima a compiere qualsiasi reazione nel proprio domicilio. Anzi, il rischio per il legislatore, che ha voluto accontentare più la domanda di un elettorato impaurito che riflettere sulle reali conseguenze della sua applicazione, potrebbe essere quello dell’«effetto boomerang». Infatti, come osserva P. Ravaglioli, «la legge è paradossalmente criminogena». Non ha diminuito i furti e le rapine, incentiva la detenzione di armi private e, più che scoraggiare i malviventi, rischia di renderli sempre più violenti e armati. Lo Stato della Florida dimostra che rilasciare in pochi anni 350.000 licenze per armi, ha provocato un aumento dei crimini.

 Il testo della riforma non è per nulla chiaro: se la sua intenzione era quella di sottrarre la legittima difesa dall’interpretazione della magistratura, assistiamo invece esattamente al contrario, per essere applicata la riforma ha continuamente bisogno dell’interpretazione dei giudici. Come abbiamo avuto modo di scrivere sulla Civiltà Cattolica «è comprensibile che una persona che ha già subito rapine, spinta dalla rabbia, dall’esasperazione e dalla paura, compri un’arma da fuoco e la usi in caso di nuova rapina»[17], raccomandavamo anche che uno strumento utile per impedire rapine è collegarsi con telecamere e allarmi alle centrali del 113, ma è condannabile che il legislatore abbia sottratto allo Stato il dovere che ha, quello di assicurare la difesa dei cittadini e a provvedere alla loro sicurezza, senza costringerli a farsi giustizia da sé. Sarebbe stato più urgente riformare la «macchina della giustizia» per snellire i processi, garantire la certezza della pena e la rieducare coloro che delinquono.

Nel frattempo ci si chiede: cosa fare della riforma? Sul piano giuridico la maggioranza della dottrina propone di modificarla e convertirla da «difesa legittima» a «difesa scusata» sul modello del codice tedesco, in cui, se l’aggredito viene colto da paura, non sarebbe condannabile perché da lui non ci si poteva aspettare una condotta diversa. Tale scusante lascerebbe inalterato l’illiceità del fatto ma attenuerebbe o escluderebbe la pena all’imputato. Ma c’è di più. Oltre a dover garantire la sicurezza ai cittadini, è necessario investire sulla formazione delle coscienze. Quando si è costretti a reagire violentemente in frangenti di secondo, come raccomanda S. Bastianel, occorre che la persona sia moralmente «formata ed informata». È necessario essere consapevoli che il valore della vita dell’altro «è più grande di qualsiasi altro valore proprio, eccetto la vita, e del fatto che in ogni caso non è mai legittimato l’odio, il rancore o la vendetta» [18]. Pensando al futuro, non occorre ricordare quanto sia diseducativo comprare armi giocattolo ai bambini, permettergli di giocare alla play station dove il fine del gioco è ammazzare l’altro o lasciarli guardare film violenti, finanziati dalle industrie delle armi.

Il livello di democrazia e di pace del nostro Paese dipenderà dalla capacità di contrastare la cultura della violenza e della vendetta che privilegia l’odio, radice di ogni guerra.

[a] C. F. Grosso, «Legittima difesa», in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, 1974, 28.

[b] Corte di Cassazione, 19 gennaio 1984, in V. Zagrebelsky – V. Pacileo, Codice penale annotato, Torino, Utet, 1999, 268.

[5] S. Bastianel, Teologia morale fondamentale, Roma, Ed. Gregoriana, 2001, 171.

[c] F. D’Agostino, «Omicidio e legittima difesa», in Nuovo dizionario di teologia morale, Cinisello Balsamo, Paoline, 1990, 829.

[d] Ivi, 823-824.

[1] Cassazione Penale, 23 ottobre 1967, 1054. In questa sentenza la Corte stabilì che «l’art. 52 c.p., con l’espressione “necessità di difendere” esprime un concetto che include quello di inevitabilità».

[2] Cassazione Penale, Sezione I, 10 ottobre 1995, n. 11.264, in Giustizia penale, II (1996), 363. La Corte di Cassazione ha escluso ipotesi di legittima difesa per aggressioni o sfide: «nessuno può invocare la necessità di difesa in una situazione di pericolo che ha contribuito a determinare e che non può avere il carattere della inevitabilità».

[3] Cassazione Penale, Sezione V, 14 marzo 2003, n. 20727, in Rivista Penale, 2003, 1079. Cfr. M. Casellato, Oltre la legittima difesa? Tesi di laurea, 2007, 50.

[4] Cassazione Penale, Sezione I, 21-04-1994, 1995, 1834, in C. A. Zaina, «L’art. 52 c.p.: una modifica necessaria?», in:

www.overlex.com/leggiarticolo.asp?id=733

[5] M. Casellato, Oltre la legittima difesa?, cit., 53-54. La condotta violenta accompagnata dall’uso di armi deve limitarsi a intimidire l’aggressore al fine di fermarlo ed arrestarlo o per recuperare la refurtiva. La difesa di un bene patrimoniale non può mai, portare all’uccisione di una persona o a commettere una lesione grave.

[6] Cfr Cassazione Penale, sezione I, 10 novembre 2004, n. 45407, in Cassazione Penale, 2006, 2176. Non menzionando i beni per la cui tutela si possa legittimamente difendersi, l’art. 52 permette l’estensione della legittima difesa anche ai beni patrimoniali, purché ci sia proporzione tra difesa ed offesa. In questa sentenza la Corte di Cassazione ha ribadito che il requisito della proporzione nel caso di conflitto tra beni diversi, viene meno quando la consistenza dell’interesse leso, vita o integrità fisica, sia enormemente più rilevante rispetto a quello difeso (patrimonio) e, comunque, il danno inferto (morte o lesione personale) sia enormemente superiore rispetto al danno minacciato (sottrazione della cosa).

[7] Seduta n. 736 del 24 gennaio 2006 alla Camera dei Deputati.

[8] Cfr F. Mantovani, «Legittima difesa comune e legittima difesa speciale», in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2006, 435 ss. I luoghi disciplinati dall’art. 614 c.p, oltre allo spazio della propria casa sono le biblioteche, le sedi di partito, i circoli ricreativi, gli studi professionali, ma anche il giardino, il cortile, il pianerottolo, le scale comuni e le autorimesse. Resterebbero esclusi i mezzi di trasporto e i luoghi pubblici.

[9] Cfr F. Viganò, «Sulla nuova legittima difesa», in Rivista Italiana di diritto e procedura penale, 2006, 194. Voci favorevoli alla riforma la ritenevano necessaria a causa della lacunosa applicazione della scriminante nella legittima difesa generale. Lo stesso Presidente della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale, Nordio, in un’intervista al Corriere della sera del 20 novembre 2002, dichiarò: «oggi le norme in vigore pur consentendo teoricamente a chi si trova di fronte ad un rapinatore di reagire con le armi, di fatto lo espone ad un processo […]. Spesso si ritiene che la reazione a mano armata, anche in casa propria, ecceda il pericolo cui si è esposti. Di conseguenza viene punita […]. La norma è molto generica e lascia spazio ad interpretazioni opposte: lecito, illecito, assoluzione, punizione».

[10] Si consultino le relazioni al Seminario del 3 marzo 2006 delle Cattedre di Diritto e Procedura penale dell’Università di Bergamo su «La riforma della legittima difesa», in:

www.unibg.it/struttura/struttura.asp?cerca=dsg_legittima_difesa

[11] La comparazione che segue è riassunta dagli studi di P. Ravaglioli, La legittima difesa, Tesi di laurea, 2007. M. Ronco, «La vittima nel diritto penale e la legittima difesa», in Cristianità, 2005, 330-331.

[12] Cfr. Code pénal. Nouveau code pénal, Parigi, Dalloz, 1993-1994, articoli 122-1/122-6, 1728-1729.

[13] Código penal, Madrid, Tecnos, 2000, articolo 20, 59-61.

[14] La riforma della legittima difesa del 1997 del codice penale croato, ha forti punti di convergenza con quella italiana. L’art. 29 la fonda sul principio di inevitabilità così definito: «Difesa indispensabile è quella strettamente necessaria che l’autore usa per respingere, da sé o da altri, un attacco antigiuridico, attuale e imminente». Mancano i requisiti della proporzionalità e della necessità. Si differenzia dalla nostra però nella disciplina dell’eccesso, in cui l’autore pur essendo imputabile gode di una diminuzione della pena, oppure può non essere imputabile se l’eccesso derivi da ira e turbamento causati dall’aggressione. In questo secondo caso la pena non viene applicata.

[15] Strafgesetzbuch und Nebengesetze (Codice penale e leggi complementari), Monaco, Verlag C. H. Beck, 2004, § 32 e § 33 con i relativi commenti, 267-283.

[16] Cfr G. Marra, «Legittima difesa: troppa discrezionalità. Non chiamiamola licenza di uccidere. Giudici costretti ad accertare presupposti molto elastici e incerti», in Diritto e Giustizia, 5 (2006). Il manifesto sottoscritto chiedeva una mobilitazione contro una legge «in cui non si sa dove finisca l’analfabetismo giuridico e dove inizi la malafede» (p. 95).

[17] G. De Rosa «È giusto sparare ai rapinatori?», in Civ. Catt., 2003 III 276.

[18] S. Bastianel, Teologia morale fondamentale, cit., 173.

 

 

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