Perchè credo nella Riforma del Terzo settore

Riporto qui parte dell’ intervista che il mensile Vita, diretta da Riccardo Bonacina, ha pubblicato nel mese di ottobre 2014, che riprende lo studio di Civiltà Cattolica.

  1. Lei scrive: “Il Terzo settore non potrà più vivere di rendita. Gli operatori sono chiamati a diventare produttivi, per finanziare i propri scopi senza snaturarne la missione sociale. È questa la vera svolta culturale da cui dipende il buon esito della riforma”. Da qui la prima domanda. Perché una rivista come la vostra, con tutto quello che rappresenta, ritiene così importante questa svolta culturale? E quali aspettative nutrite a riguardo? Quale ruolo può avere la Chiesa per sostenere questa operazione culturale?

Il sistema Paese ha bisogno di ripartire con urgenza e sono tre le radici che possono nutrire il nuovo corso: la speranza nel futuro, la fiducia tra le persone, la sussidiarietà nella gestione dei processi economici, politici e sociali.

È per questo che la riforma del Terzo settore rappresenta per noi gesuiti di Civiltà Cattolica la possibilità di una svolta culturale. A due condizioni però. I decreti attuativi dovranno concretamente prevedere meno ingerenza burocratica dello Stato e più libertà alle imprese con vocazione sociale.

Accountability-2_1_240x380È poi necessario abbandonare la mentalità assistenzialistica di alcune aree del Terzo settore collaterali all’amministrazione pubblica e premiare il profitto degli imprenditori sociali orientato alla costruzione del bene comune.

Questa rivoluzione culturale, infatti, include la capacità di rendere attuale il principio antico del bene comune. Tutte le principali dottrine economiche — anche se a volte per utilità o mancanza di prospettive — convergono con questo principio cardine della Chiesa secondo cui il bene comune non è la somma dei profitti di ciascuno (il bene totale) ma il prodotto della condivisione di tutti coloro che partecipano all’attività economica.

La riforma del Terzo settore privilegia forme di “economia civile” e supera quei modelli di economia orientata alla massimizzazione del profitto che tecnicamente è il bene totale dell’economia capitalista.

Rispetto a cambiamenti di mentalità così radicali è dunque necessario che la società civile e la classe politica sappiano guardare “oltre” per costituire e interpretare un’idea nuova di società, di giustizia sociale e di economia. È il sogno di poter ripensare insieme una “Terza via” per uscire dalla drammatica crisi economica che continua a colpire le categorie più deboli. La vocazione dell’economia civile è trovare punti di equilibrio tra le esigenze dello Stato, quelle del mercato e della società civile. Riconoscere al Terzo settore la capacità di scambiare liberamente beni o servizi sul mercato in funzione di un fine diverso dal profitto o la possibilità, per un’impresa come quella sociale, di avere un fine di utilità sociale, rientra in quella visione umana che la Chiesa definisce come “civilizzazione dell’economia”. È per questo che il Terzo Settore è definito come “la terra di mezzo tra la sfera del Pubblico e del Mercato”. Sarà compito di tutti spingere la barca del Terzo settore nel mare aperto del mercato per farla navigare verso porti che hanno come priorità l’inclusione sociale sul profitto che deve comunque essere un obiettivo da perseguire. I “nuovi rischi” degli imprenditori — si pensi ad un’impresa sociale che produce determinati beni e che impiega ex-detenuti con l’obiettivo di reinserirli socialmente — che si faranno carico di costi sociali dovranno però essere riconosciti dallo Stato con sgravi fiscali e una serie di altre agevolazioni.

  1. In una recente intervista monsignor Galantino alla domanda “vi impensierisca un’economia di fatto in recessione?”, risponde: “…La produzione di beni a destinazione pubblica supera il paradigma economico rivelatosi inadeguato con questa crisi e genera occupazione ma al servizio dell’uomo. Ripartire da quei sarebbe una sorta di “nuovo battesimo sociale” capace di generare speranze nel Paese”. Come va interpretata la formula “nuovo battesimo sociale”?

In questo caso “battesimo sociale” significa il passaggio ad una vita (sociale) adulta fondata dalla corresponsabilità e non dalla cultura dell’assistenza. C’è un però. La Chiesa non chiede di superare l’idea né dell’economia di mercato né dell’azienda, ma quella di un mercato esclusivamente ripiegato sull’obiettivo del profitto a tutti i costi che definisce «risorse umane» le persone equiparandole a una voce tecnica dell’azienda e che prescinde dall’eticità dei mezzi, dei fini e da un’antropologia al servizio della persona.

SOCIALE1Generare speranza significa dare la possibilità al privato (sociale) di ripartire dai bisogni dei territori. La riforma è coraggiosa e chiede una corretta applicazione del principio di sussidiarietà che, se ben applicato, favorisce nel Paese percorsi di cittadinanza attiva, facilita la creazione di nuovi posti di lavoro fino a rimodellare la nozione di welfare. Grazie a questo principio la riforma permetterebbe a Comuni e Quartieri ma anche ad associazioni di volontariato, Onlus, associazionismo no-profit, cooperative, fondazioni e imprese sociali, di “fare fiorire” un nuovo modo di fare politica. La politica accompagnerà e a volte sarà costretta ad inseguire le iniziative e la vocazione sociale del Terso settore fino a ridisegnare la relazione tra “potere” e “servizio”. Nella riforma il servizio al bene comune, la gratuità e il dono, la giustizia e l’uguaglianza, il merito e la solidarietà sono ricollocati come fondamento di una nuova convivenza sociale. Insomma, la riforma presuppone un’opzione personale di responsabilità e un cambio di mentalità che potremmo definire con le note parole di Kennedy: “Non chiedere quello che il tuo Paese può fare per te, chiediti invece cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. Lo scopo è di permettere non solamente che i cittadini rivitalizzino i corpi intermedi, ma che diventino protagonisti dello sviluppo e del governo del loro territorio. Questa riforma avrà bisogni di protagonisti che dimostrino con la vita i princìpi che credono, saranno necessari stili di vita sobri e il coraggio di cooperare. È questa la conversione culturale che chiede la riforma. Nella tradizione biblica il “valore” non è solo distribuire valore (economico) creato da altri ma anche creare valore per altri. Il magis di un’azione economica umana sta nel creare valore e condividerlo o crearlo condividendolo. È per questo che l’agire economico auto-interessato deve recuperare nuove motivazioni valoriali per attualizzare la riforma.

  1. Sull’ultimo numero di Vita, Giuseppe De Rita nutre delle riserve sulla capacità del Terzo settore nel sapere raccogliere questa sfida. Anche lei vede delle resistenze? Come superarle?

De Rita è sospettoso sul senso della “coesione” e chiede di connettere le intelligenze perché ciò che ha fatto la fortuna del nostro Paese è stato il capitalismo personale. E se invece oggi per creare posti di lavoro e integrare chi rimane fuori dalle regole del mercato (liberale) sia necessario un capitalismo sociale? È vero i gruppi tradizionali sono specializzati nell’attività redistributiva e nell’ottenimento delle risorse necessarie dal fronte pubblico (con i noti limiti del collateralismo); essi però devono confrontarsi con una sfida tutta nuova ed un mondo dove molte risorse vengo dal privato (magari profit) con rischi diversi ma altrettanto importanti di strumentalizzazione. E se la Riforma favorisse proprio l’ibridazione dei modelli e la capacità di creare anche valore oltre alla capacità di distribuirlo?

Le imprese sociali devono però essere meglio definite e regolate dalla riforma e riguardare (anche) il commercio equo e solidale, l’housing sociale, il microcredito, i servizi al lavoro finalizzati all’inserimento lavorativo di lavoratori svantaggiati, l’agricoltura sociale. È nell’innovazione del fare impresa sociale ciò a cui dobbiamo credere insieme.

  1. D’altro canto la riforma presuppone anche un avvicinamento del mondo profit a dinamiche tipiche dell’economia civile e cooperativa. Crede che da questo punto di vista il mondo dell’economia e della finanza sia pronto a giocarsi la partita?

Quali alternative avremmo? La bolla finanziaria è nata dalla menzogna e dalla mancanza di fiducia tra le persone, ha lasciato solo macerie, salvato i protagonisti di quel sistema e tradito milioni di risparmiatori. La riforma è la presa d’atto che dopo quella crisi si deve trovare un paradigma economico condiviso e diverso che orienti l’azienda a creare valore economico attraverso la creazione di valore sociale per la collettività nella quale è inserita e opera. Non è un caso che i primi ad intuire l’importanza della finanza sociale come “uscita d’emergenza” dalla crisi, senza forse condividerne i valori e le finalità sociali, sono state le banche come la JP Morgan e la Credit Suisse.

Nel nostro sistema economico le dinamiche dell’economia civile e delle cooperative, anche se non pubblicizzate dalla grande stampa, sono ormai consolidate da tempo; per esempio la pressione dei fondi etici e dei consumatori responsabili che votano col portafoglio è sempre maggiore e le imprese profit hanno tutto l’interesse ad accrescere la loro reputazione sociale, magari per non uscire dalla whitelist dei fondi etici. Anche il filone, oggi molto di moda, dell’impact investing e dei social impact bond gestiti dal settore profit, ha identificato nel terzo settore attività a basso rischio e a basso rendimento un “buon affare” anche per investitori tradizionali non orientati eticamente. Il problema vero è evitare strumentalizzazioni e costruire un rapporto tra profit e non profit sano attraverso quello che nell’articolo, citando Alessandro Mazzullo, abbiamo definito come not for profit in cui “l’attività svolta non è finalizzata alla massimizzazione di un profitto commerciale”.

  1. Cosa pensa dell’idea di rendere il servizio civile un diritto di tutti i ragazzi (servizio civile universale) e – se andasse in porto questa ipotesi – come pensa reagiranno i giovani a questa proposta e che impatto potrà avere sulle famiglie e sul modello educativo che il nostro Paese propone ai suoi giovani? 

Quella del servizio civile insieme al Registro unico del Terzo settore e alla creazione (forse) di una Autority è uno dei pilatri della riforma. Il capitale sociale e civile di un Paese non è dato una volta per tutte ma si deteriora se non c’è una cultura volta a ricostituirlo. Il servizio civile è anzitutto un investimento prezioso in capitale sociale. La riforma include la definizione contenuta nella legge n. 64/2001 che è da considerarsi tra le più innovative e moderne in Europa. Essa definisce il servizio civile come “difesa della patria, in alternativa al servizio militare, con mezzi ed attività non militari”, crea le condizioni per formare “un esercito di pace”, alternativo (non sostitutivo) all’esercito militare; è in sintonia con l’Agenda di Pace dell’Onu che ha introdotto l’intervento di peacekeeping e peacebuilding di tipo civile considerati della stessa dignità ed efficacia agli interventi militari.

Prevedere nella riforma il servizio civile per 100.000 ragazzi in cinque anni è un investimento di umanità e di recupero il senso del servizio civico che si è quasi perso in questi ultimi 15 anni. Su questo punto però speriamo che la riforma non sia condizionata esclusivamente da vincoli di bilancio e regoli meglio il rapporto tra Stato e Regioni con gli enti, preveda controlli rigorosi verso le organizzazioni che sfruttano i giovani in servizio, risparmiando stipendi, grazie all’intero sussidio pagato dallo Stato. Dei tipi di servizio civile possibili, quello in favore degli ultimi rimane da favorire grazie alla crescita umana di coloro che lo offrono e colore che lo ricevono. È un’esperienza che tocca e cambia la vita. È stato così anche per me.

 

 

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