Vivere in community tra Hikikomori e argonauti digitali

Partiamo da un dato: la quantità di dati generata dall’inizio dell’umanità fino al 2003 (notizie, immagini, foto, musica, testi) viene oggi riprodotta nell’arco di sole 48 ore. Le nostre bisnonne formavano gruppi nei cortili per chiacchierare mentre cucivano o pulivano le verdure dell’orto, la generazione dei nostri padri ha abitato luoghi di appartenenza come l’oratorio, il circolo, la cooperativa, la sede del partito. Oggi il web risponde a questo stesso bisogno antico: dire community rimanda a ciò che è communis, co-obbligante e co-obbligato, l’incarico (munus) da compiere insieme con (cum) altri.

In Rete si sceglie di aderire a community intorno a interessi comuni, per scambiarsi opinioni, discutere ma anche decidere. La vita cerca frontiere per espandersi – fino anche ad andare oltre la propria corporeità – per incontrare e relazionarsi, conoscere e auto-comprendersi meglio. La Chiesa ne è cosciente, il Papa chiede di tenere gli occhi e il cuore aperti per saper discernere: è un’occasione tutto ciò che apre verso la conoscenza, lo sviluppo, la relazione. È una tentazione, invece, scegliere di rinchiudersi nell’autoreferenzialità. Nel suo Messaggio per la giornata delle comunicazioni Francesco chiede di trasformare le community – come un gruppo di Facebook o un blog tematico – in una comunità umana, perché il “che cosa” comunicare non può più prescindere dal “come” e dal “per chi”. Si riparte dall’educazione ad abitare la Rete: quante parrocchie educano a stare responsabilmente nelle community? I pericoli sono troppi, se pensiamo che “un ragazzo su quattro è coinvolto in episodi di cyberbullismo”, dice il Papa. Anche in Rete grano e zizzania crescono insieme ma la sfida è far crescere il grano per non restare soffocati dalla zizzania.

Viviamo, direbbero i sociologi, nell’era “biomediatica”, ciascuno è accompagnato dalla propria “nuvola”, che custodisce e amplia la memoria umana. Il mezzo – piccoli e potenti smartphone o agili tablet – diventa una vera e propria “applicazione” del corpo, una protesi capace di accrescerne le prestazioni. Non c’è nulla di virtuale, tutto è reale: la connessione, la tecnologia cloud, la delocalizzazione della memoria con i contenuti digitali in una sede remota, sono i nuovi strumenti per comunicare e comunicarsi con il mondo.

L’invito a “spegnere i telefonini” che si ascolta all’inizio di uno spettacolo, in aereo o nelle chiese, viene spesso eluso non tanto per maleducazione ma per una paura inconscia di rimanere isolati dal proprio mondo. È la paura di perdere la funzione di accesso agli spazi di vita conquistati nelle proprie community, in cui ci si associa per lavoro, per interessi o passioni. Ci sono community che nascono intorno ai bisogni del territorio, altre per affinità di gusti o di stili di vita, altre ancora per promuovere una nuova idea di sviluppo.

Ci sono poi community politiche. In Germania Liquid Feedback, ripresa a macchia d’olio da movimenti politici austriaci, svizzeri, brasiliani e italiani. La più nota in Italia è la piattaforma Rousseau del M5S, gestita e finanziata da una società privata: per partecipare ai dibattiti e alle votazioni occorre iscriversi e sottoscrivere un contratto. Si tratta di uno strumento di democrazia diretta ancora parecchio oscuro nelle vere intenzioni all’origine, con il quale una piccola élite è riuscita a rimpiazzarne altre. Mancando di trasparenza e del corretto processo di deliberazione, strumenti come questo non sono di democrazia partecipativa.

Sono, però, i “nuovi luoghi” di partecipazione, nei quali è forte la percezione dell’identificazione comunitaria, della viralità dei propri messaggi e il “piacere” dei like. Ciò che manca nella Rete è la dimensione del territorio.

Nel decalogo per i comunicatori della Carta di Assisi è scritto: “Se male utilizzate, le parole possono ferire e uccidere. Ridiamo il primato alla coscienza: cancelliamo la violenza dai nostri siti e blog, denunciamo gli squadristi da tastiera e impegniamoci a sanare i conflitti. Le parole sono pietre, usiamole per costruire ponti”. Alcune community ne stanno prendendo coscienza e hanno iniziato forme di autoregolamentazioni, come ad esempio quella dei giornalisti di Valigia blu che ribadisce.

È urgente una governance internazionale che protegga i più deboli e controlli chi, attraverso le echo-chamber (la camera dell’eco) deforma informazioni, idee, fatti e credenze. La connessione infatti nel tempo della post-verità non basta più, serve consolidare legami sociali e politici, come fanno tra loro le community del Terzo Settore e dell’Economia civile come Next.

Anche il sistema simbolico religioso è modificato dalle community e dalle loro nuove credenze. La religione dei nativi digitali non richiede alcuna storia, perché è basata sui dati e l’appartenenza alle community. Me ne sono occupato insieme a Paolo Benanti in un articolo pubblicato su La Civiltà Cattolica
Non ha bisogno della Provvidenza, perché a tutto provvede l’algoritmo. E se il regno dei cieli rischia di essere confuso con il cloud – il (nuovo) cielo dove, grazie a un mind-uploading (l’emulazione del cervello), si potranno vivere esistenze infinite – cambia anche l’escatologia.

Per i giovani, poi, la sfida è ancora maggiore. Dentro le “realtà” dei videogiochi ci si ritrova connessi da tutto il mondo, a volte si paga per imparare a giocare, e le logiche di queste community di giochi universali sono un nuovo credo. I giovani “hikikomori” – termine giapponese che significa “stare in disparte” – sono il volto oscuro delle community. Mezzo milione di ragazzi giapponesi e circa 100mila italiani che stanno chiusi nella loro camera da letto, non escono mai, non vogliono alcun contatto con l’esterno. Abbandonano la scuola e gli amici. L’unica forma di relazione è la Rete. Uno di loro – Paolo – ha dichiarato a un quotidiano nazionale: “La luce mi disturba. Meglio il buio. Tanto non ho orari. Gioco tutta la notte. C’è silenzio. Soltanto noi che ci sfidiamo in Rete. Oltre quelle finestre c’è gente che non mi piace. In questa grotta mi sento tranquillo”. Come antidoto a questo fenomeno è nata la community “Hikikomori Italia”, cui appartengono già 1.000 genitori e 500 ragazzi. La loro sfida è quella di diventare una comunità che sana la ferita della dipendenza dalla Rete attraverso la comprensione, la pazienza e l’aiuto di esperti.

Gli analisti più critici affermano che nel tempo della frammentazione del “noi” rimane la solitudine dell’“io” che, come una monade, cerca altre persone sole. I più ottimisti vedono nelle community un potenziamento di ciò che siamo. Papa Francesco accoglie le diverse posizioni: “Nei casi migliori le community riescono a dare prova di coesione e solidarietà, ma spesso […] ci si definisce a partire da ciò che divide piuttosto che da ciò che unisce, dando spazio al sospetto e allo sfogo di ogni tipo di pregiudizio (etnico, sessuale, religioso, e altri)”. Quali i rischi? L’esplosione del narcisismo, che considera la Rete una vetrina e non una finestra sul mondo, e la regressione da “cittadino” a “consumatore”.

Secondo Vittorio Sammarco, docente all’Università Pontificia Salesiana, per accompagnare il processo in corso occorre investire su quattro “C”: conoscenza, conversazione, condivisione e cura. Noi ne aggiungiamo altre tre: la collaborazione, il contesto e la cultura. Si dice che la Rete sia una trappola per le mosche e una casa per i ragni, il pericolo è muoversi senza conoscere le sue strade. Per questo il Papa punta sull’educazione che comunità come la Chiesa possono offrire: ogni mia parola pronunciata in una community, oltre a rimanere per sempre, deve essere pensata per costruire il bene e condividere lo stesso umano destino; ogni mia azione, ricorda il Papa, è “il completamento all’incontro in carne e ossa che vive attraverso il corpo, il cuore, gli occhi, lo sguardo, il respiro dell’altro”.

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