Bauman: le culture ripartano dal “principio di speranza”

In questi anni, io come molti altri, abbiamo letto tutto ciò che Bauman ha scritto. Nella mia stanza si trovano i suoi libri ordinati uno dopo l’altro. Leggerli ad un fiato o riprendere pagine scelte mi ha sempre stimolato. Non banalizzava mai e l’interpretazione del sociale che offriva mi ha sempre molto aiutato nella riflessione culturale e politica dei processi in corso.
Insomma, gli sono debitore. A partire dal suo pensiero ho scritto molto come per esempio lo studio “Società e politica: in dialogo con Bauman” che anche lui aveva letto, facendomi recapitare nelle mani di un nostro amico comune alcune sue righe autografe di ringraziamento.

Ecco un estratto dell’articolo che contiene elementi di riflessione utili.

L’umanesimo al centro dei processi produttivi

Più che strategie politiche, Bauman propone le condizioni per un dialogo che superi i confini degli Stati nazionali e abbia come interlocutori le culture e i centri reali del potere, come ad esempio i grandi gruppi finanziari, quelli che controllano la Rete, le grandi multinazionali ecc. A questi interlocutori è necessario chiedere che cosa significa umanesimo, mentre le culture, perché siano capaci di «un dialogo aperto e informale, non devono avere nessun codice preparato in anticipo, ma le regole della nostra interazione vanno fissate nella relazione». Nella cooperazione, i dialoghi non sono giochi a somma zero, «ma la cooperazione è un gioco in cui non ci sono vincitori e sconfitti, ma tutti emergono dalla cooperazione arricchiti; questo è il succo del procedere». Certo, rimane il problema dell’identità nella società liquida che porta a pensare: «Mi trovo a casa ovunque, benché (o perché) quel luogo che chiamo casa non esiste da nessuna parte».


Abituarsi a ridistribuire

Secondo Bauman, la soluzione alla crisi non solamente italiana è anzitutto una questione culturale, che inizia con un imperativo: «abituarsi a ridistribuire», per scommettere su un umanesimo basato sulla cooperazione e la solidarietà. «Non si tratta solo di ridurre i consumi e gli sprechi propri dello stile di vita occidentale, ma di ritrovare il senso della comunità e del sostegno reciproco. Dobbiamo renderci conto che un mondo, quello che abbiamo conosciuto, in cui abbiamo creduto e vissuto, è finito. Dobbiamo cominciare un ciclo nuovo», che deve essere guidato da élites culturali preoccupate di «coltivare persone» e non di «sedurre clienti».

Il «principio di speranza»

Secondo Bauman, le culture hanno bisogno di ripartire dal «principio di speranza» approfondito nelle opere di Ernest Bloch. Dietro a frasi che assomigliano a slogan o a ipotesi tutte da provare, anzi contestate da altri studiosi, la proposta epistemologica di Bauman si articola in dialogo con i grandi pensatori dell’Ottocento e del Novecento. È in accordo con la critica del progresso elaborata da Mann e Spengler, Nietzsche e Heidegger, quando ritiene che la malattia dell’Occidente sia nell’inarrestabile sconfinamento della tecnica nell’orizzonte, sempre più violentato, della natura. Dalla Harendt egli trae la descrizione dei «tempi oscuri» che viviamo: «La sfera pubblica ha perso la capacità d’illuminazione che faceva parte della sua natura originaria. Nei Paesi del mondo occidentale, in cui la libertà dalla politica è stata inclusa costantemente, dal tramonto del mondo antico in poi, tra le libertà fondamentali, diventano sempre più numerosi coloro che fanno uso di tale libertà e si sono allontanati dal mondo e dagli obblighi che hanno al suo interno […]. Ma ad ognuno di questi arretramenti si verifica una perdita quasi comprovabile, verso il mondo. Ciò che si perde è la mediazione specifica e in genere insostituibile, che si sarebbe dovuta formare tra l’individuo e i suoi simili» [1]. Estremizzare questa posizione ha spinto Bauman a ritenere che, alienandosi dal mondo, l’uomo contemporaneo occidentale trovi la sua identità solamente nella sfera privata e nell’intimità degli incontri face to face. Tuttavia questa posizione deresponsabilizza la partecipazione alla vita pubblica, e ciò condurrebbe la politica alla gestione del potere dei più forti.

L’’Altro come promessa

Bauman rifiuta le tesi di Taylor e dei fautori del multiculturalismo, le sue posizioni si rivelano critiche con il pensiero dei filosofi personalisti come Ricoeur e Lévinas, ai quali egli è debitore del concetto di alterità. Mentre per Lévinas l’altro è sempre il sacro che si manifesta, per il sociologo polacco è un errore guardare «all’identità e alla natura della cultura come se fossero oggetti, compiuti al loro interno e chiaramente delineati all’esterno»; infatti «l’Altro può essere una promessa, ma anche una minaccia». Superate anche le promesse dell’homo faber teorizzate da Bacone e Voltaire, per Bauman «la tecnica non si limita ad occupare lo spazio della natura, non va né assolutizzata né demonizzata, ma nemmeno sostituita per riprodurre in modo artificiale i suoi prodotti, compresa la stessa natura umana» [2]. Per Bauman la natura non è così fragile e indifesa, anzi si ribella come può.

Bauman rivolge il suo sguardo, positivo sull’uomo, alla realizzazione di due condizioni: la prima è quella di liberarsi dal controllo sulla natura da parte della tecnologia, come ad esempio le grandi domande che attraversano la bioetica. Per questo motivo la crisi di paradigma di sistema non è soltanto nello Stato e nelle «traballanti istituzioni», ma si estende alle istituzioni scientifiche. La seconda si basa sul principio di responsabilità di Jonas, in cui da un’etica antropocentrica si passa a un’etica globale, un’etica creazionale.

Il principio di responsabilità di Jonas è un dovere assoluto, ma prescrive un giudizio di tipo consequenzialistico, che dispone di agire in modo tale da non distruggere la possibilità della vita umana sulla terra; questa forma di consequenzialismo che Bauman assume ha come fine dell’etica che propone non il benessere o la felicità, ma la sopravvivenza delle generazioni future, un bene non quantificabile. Questa argomentazione molto suggestiva è esposta alla possibilità di obiezioni, proprio per quella nozione assolutistica di natura umana che Bauman non ha mai voluto fondare sui suoi presupposti metafisici. Anzi, nei suoi riferimenti culturali, il sociologo polacco non sceglie esplicitamente di avere come sua interlocutrice la Chiesa e la sua proposta sociale, la quale, coincidendo spesso nei presupposti teoretici sulla lettura della realtà, potrebbe orientare e finalizzare il suo pensiero.

[1] A. Harendt, Men in Dark Times, New York, Harcourt Brace, 1983, 24.

[2] Si veda l’approfondimento di C. Rovirosa – Madrazo, «Sfidare le creature liquide», in Z. Bauman, Vite che non possiamo permetterci, Roma – Bari, Laterza, 2011, 191-205.

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